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Il reale impatto dell’autonomia differenziata, l’analisi di Giovanardi (Università di Trento)

Con 172 voti favorevoli, 99 contrari e 1 astenuto, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario, il provvedimento voluto dal ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli, che definisce le modalità con cui le regioni potranno chiedere il trasferimento di alcune funzioni e competenze. Per la maggioranza – in primis la Lega, che ne ha fatto la sua bandiera elettorale – l’autonomia differenziata consentirà maggiore controllo della spesa e maggiore efficienza nell’erogazione dei servizi ai cittadini. Per i detrattori, contribuirà ad acuire il divario economico e sociale già esistente, fra le regioni del Nord e quelle del Sud.

Abbiamo analizzato le ripercussioni della normativa con il professor Andrea Giovanardi, ordinario di Diritto tributario all’Università di Trento, componente del comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, nonché membro della Delegazione trattante incaricata dalla Regione del Veneto di seguire il negoziato col Governo per il raggiungimento dell’autonomia differenziata.

Professor Giovanardi, di autonomia differenziata si parla dalla Riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. Crede che questa sia la volta buona?

Sicuramente si tratta di un passo avanti di grande rilevanza. La Legge Calderoli è una legge quadro, di attuazione dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione, che prevede la possibilità di riconoscere alle Regioni che ne fanno richiesta, ulteriori forme di autonomia nelle materie ivi indicate, dopo una trattativa col Governo e il raggiungimento di un’intesa. Nella legge attuativa sono contenute le regole del gioco.

Come funzionerà il meccanismo dell’intesa Stato-Regioni?

La logica dell’autonomia differenziata è che le Regioni possono richiedere allo Stato il trasferimento di funzioni e competenze riconducibili alle materie indicate nell’art. 116, terzo comma. Lo Stato ha tutto il diritto di rigettare la richiesta, oppure di accoglierla, a patto che la Regione richiedente dia dimostrazione di poter svolgere le funzioni in questione con maggiore
efficacia ed efficienza. La legge, da questo punto di vista, è alquanto cauta. La Regione deve dimostrare di avere i conti in ordine. Inoltre, il Presidente del Consiglio potrebbe limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie e funzioni a tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.

Che ruolo giocheranno i Livelli essenziali di prestazione (Lep)?

La concessione di ulteriori forme di autonomia è subordinata, per le materie che coinvolgono i diritti civili e sociali che danno corpo alla cittadinanza, alla determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), cioè le soglie minime di servizio che deve essere garantito su tutto il territorio nazionale. Fin quando non saranno determinati i Lep, e fissati costi e fabbisogni standard, non si potrà addivenire a nessun trasferimento di funzioni e competenze. Se si rendono necessarie ulteriori risorse per garantire i Lep, il trasferimento rimane comunque bloccato, finché queste non verranno individuate.

Non crede che questo provvedimento possa contribuire a spaccare in due il Paese, acuendo le già esistenti disparità regionali?

La principale preoccupazione dei detrattori del progetto, fin dall’inizio, è stata che con l’autonomia differenziata maggiori risorse restassero a chi ne ha meno bisogno e viceversa. Un rischio scongiurato dalla legge Calderoli. L’articolo 8, infatti, esclude che il meccanismo di finanziamento, fondato sulle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio consenta di attribuire alla Regione che si è differenziata risorse maggiori di quelle necessarie per coprire la spesa per l’erogazione dei servizi trasferiti. Non si potrà quindi usufruire, questo a me sembra un limite della legge, di ulteriori risorse derivanti dallo svolgimento del meccanismo compartecipativo, nemmeno se queste derivano dai risparmi della Regione. Il processo di autonomia differenziata, inoltre, non modifica le condizioni finanziarie delle Regioni che non vi fanno ricorso.

Lo Stato perderà il controllo di una parte della spesa pubblica. Non teme che ciò vada a intaccare la sua capacità di fare programmazione, rendendo la gestione delle finanze più problematica?

Un ragionamento del genere parte dall’erroneo presupposto secondo il quale il Governo concederà tutto o gran parte di ciò che la Regione richiede, generandosi così un rischio di disarticolazione dello Stato unitario. Questa propensione al trasferimento senza colpo ferire delle più svariate funzioni e competenze alle Regioni non è in realtà nelle cose e, quindi, accadrà che le funzioni saranno trasferite solo quando risulti al di là di ogni ragionevole dubbio che la Regione saprà fare meglio.

E in materia di Sanità, non c’è il rischio di accrescere la disomogeneità nell’accesso alle cure?

La sanità in realtà è già gestita dalle Regioni, per cui non andiamo incontro a grandi modifiche. Il fatto che ci siano delle disparità è un fatto oggettivo: il problema è capire perché ciò avviene, pur essendo la sanità finanziata in modo omogeneo in tutto il Paese. Io sono tutt’altro che sicuro che lasituazione migliorerebbe se si passasse a una gestione centralizzata.

Dalla sua analisi emerge un provvedimento meno radicale di quello che si legge in giro. È molto distante dal progetto originario della Lega, che dell’autonomia differenziata ha fatto negli anni la sua bandiera?

È un po’ diverso dal progetto iniziale, ma non se ne discosta poi così tanto. Nessuno, neanche fra le fila della Lega, ha mai pensato di chiedere altro rispetto al trasferimento di singole funzioni e competenze. Ed è stato chiaro da subito che non sarebbe stato facile. La differenza principale è che, nell’idea iniziale, le Regioni ottenevano come incentivo la possibilità di trattenere sul territorio una parte delle risorse, sia quelle derivanti da una maggiore efficienza nell’erogazione dei servizi, sia, almeno in parte, gli eventuali surplus collegati alla crescita del gettito compartecipato. Una misura che, purtroppo, è venuta meno nella versione definitiva della legge Calderoli.

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