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Grand Re-Tour

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Velasco25 Articolo

Sant’Agata – non la martire catanese ma, di magma in magma, il borgo eponimo della penisola sorrentina – resta sospesa “sui due golfi” e non è l’unica dualità intorno a cui lassù (quota 400 metri sul Tirreno) si veleggia e si volteggia: tradizione e traduzione, per esempio. Della prima parlano le storie, la seconda ne innesca un’altra: il trasferire da parte di una sorta di custode-garante e l’interpretare, aggiornando grammatica e sintassi dell’ospitalità – risparmiando però i lemmi ché, come radici e materie prime, non vanno revisionati.

A pieno titolo nello stardom di Relais & Châteaux da tre decenni, il Don Alfonso 1890 ha riaperto dopo un anno e mezzo di stop per interventi di rinnovamento. In questa micro-cittadella dell’accoglienza a pochi passi dalla chiesa parrocchiale del paese l’epos che soffia sull’album della famiglia Iaccarino ne sfoglia pagine non ingiallite: squadernano cromie pastello – fucsia, rosa, lilla e dintorni – che brillano coi vermigli del pomodoro e riverberano nel bianco tra ceramiche e tessuti, combinando chiaroscuri e luminanza. Il ‘c’era una volta’ è da manuale: un Alfonso senior – classe 1869, orfano di padre e poco più che adolescente – che salpa per gli Stati Uniti insieme ad una coppia di zii, rientra dopo qualche anno, si lancia nella ricettività insieme ad un herr Brandmeier – il solito-insolito tedesco nel solco del Grand Tour (stanziale) – e crea un hotel-ristorante.

Si passa all’Alfonso #2, oggi settantasettenne: il primo nome è quello del nonno, il secondo (Costanzo) scivola via e subentra il don. Il totem è piantato. Insieme alla moglie Livia dà nuova vita alla dépendance che da mezzo secolo è ‘il’ ristorante leggendario: centro di gravità ben presto imprescindibile per avventori, curiosi e affezionati, gastronauti e semplici amanti di una cucina d’autore e diretta. Lo stargate che si varca per accedere al Don Alfonso 1890 pare impercettibile, inserito com’è nel contesto urbano: sottili membrane dentro/fuori, non si punta alle sfere aliene e alienanti delle troppe macro-bolle che l’hôtellerie contemporanea leviga, lucida e dissemina.

L’osmosi autentica con genius e ingegno del luogo ne fa invece un’oasi, allo stesso tempo ambasciatrice discreta e protagonista. Su un lato l’elegante palazzo con sette delle otto camere di questo boutique hotel (arredi antichi, maioliche moderne, spazi generosi) e le sale del ristorante. Dirimpetto la biblioteca, sorta dove si giocava a tennis: niente terra battuta ma boiserie e specchi. Più avanti il patio-giardino bordato dalla piscina in pietra, gli spazi in cui si tengono corsi di cucina, la suite Casa del Poeta. Salvatore di Giacomo, cantore di una napoletanità poi stereotipata – anche suo malgrado, si dice che non volesse essere associato al brano Marechiaro (il testo tuttavia ricalca parecchio alcuni suoi versi) – si godeva qui un’altra Campania Felix. Da qualche parte lì sotto, infine, la cantina: quasi trentamila bottiglie (oltre duemila etichette) popolano gli ambienti a scandire un palinsesto di secoli man mano che si avanza scendendo tra cavità settecentesche e passaggi remoti – fino agli arcani oschi, pare – verso il sancta sanctorum nel ventre della roccia, una grotta di affinamento di super-formaggi.

Torniamo alla luce, usciamo e ripartiamo. Ad una manciata di chilometri il Don Alfonso ha trovato, letteralmente e non, nuova linfa per radicarsi ancora di più con terreno, terroir e territorio. Negli anni ’90 Alfonso e Livia vendono una proprietà e comprano un terreno in zona Termini, un azzardo ma tenacia e visione prevalgono: nasce così la bio-tenuta Le Peracciole a Punta Campanella con Capri in primo piano, le falesie sotto e i verdi un po’ ovunque. Questo posto pare dar senso, sensi e impulso a tutta la storia. Un po’ perché Alfonso in quel buen retiro trascorre buona parte del tempo in sortite a cadenza giornaliera, un po’ per il fatto che lì nascono prodotti, idee e ciò che serve a sublimare l’estro della natura in talento in cucina. È un mondo inclinato di agrumi, olive e frutta, rettangoli di suolo in cui crescono patate e piselli, lembi accidentati con carciofi. E poi fiori, arbusti & co.

Un caos calmo, una tavolozza periodica di alimenti che declina il giardino botanico in orto e viceversa: l’hortus nell’accezione più propria e personale, premessa dell’otium di ricerca. Filosofeggiare tra retorica (inevitabile) e suggestioni solletica altri rimandi ma fermiamoci, rientriamo a ‘downtown Sant’Agata’ e senza esitazioni accomodiamoci al ristorante. Prima stella verde Michelin della Campania qualche anno fa, la proposta gastronomica di Ernesto, uno dei due figli di Alfonso, si muove nella scia dell’allure sperimentale e sanguigno della cucina del padre – semplicità dove serve, azzardi affinati all’infinito e rodati per andare oltre, filiera corta e selezionatissima – in un dialogo mare-terre da ravvivare di continuo.

E restando nell’empireo della ristorazione, oltre e a prescindere dai gusti transalpini ché anche Napoleone a Napoli si è posato en passant. Slanci centrifughi, immersioni centripete, traiettorie molto varie (e non eventuali): con gli Iaccarino non è semplice trovare una sintesi e forse è normale così. Fa parte del dna di molti imprenditori ancorati alle proprie origini eppure proiettati ad espandersi lontano. Hanno iniziato nel 2007 con un presidio gastronomico al Grand Lisboa di Macao (e da poco il bis nella piccola isola). Poi Nord America (Toronto e St. Louis), Lucania. E ora anche il Portogallo di Cascais. La saga è del resto iniziata con quel viaggio sull’Atlantico, con un andare per poi rientrare: ogni giorno un Grand Re-Tour sui golfi, dall’alto. E da dentro.

 

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