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Tumore al seno, il nuovo esame del sangue ‘svela recidive’

tumore seno

Un nuovo esame del sangue ‘ultra-sensibile’ sarà in grado di prevedere quali pazienti con tumore del seno andranno incontro ad una recidiva, in media fino a 15 mesi prima che venga rilevato da un esame radiologico. Il test si chiama Personalis NeXT Personal® ed è una biopsia liquida che individua fino a 1800 mutazioni nel Dna tumorale dei pazienti (il cosiddetto DNA circolante o ctDNA).

L’elevata sensibilità di questo nuovo test consente, rispetto ad altri di questo tipo già disponibili, di prevedere la comparsa di una recidiva clinica più di un anno prima (ma in qualche caso anche più di tre anni prima). E questo potrebbe aprire la strada a nuove strategie di trattamento per le recidive di tumore del seno, iniziando a trattare queste donne con malattia residua molecolare, ad alto rischio di recidiva, molto prima che il tumore torni ad essere clinicamente evidente.

Il test è stato messo a punto dall’Insitute of Cancer Research di Londra e i risultati dello studio ChemoNEAR sono stati presentati al congresso Asco di Chicago da Isaac Garcia-Murillas del Breast Cancer Now Tony Robins Research Center, presso l’Institute of Cancer Research di Londra. I test basati sul ctDNA disponibili finora, sono in grado di rilevare solo da 16 a 50 mutazioni a carico degli esoni, cioè dei geni codificanti alcune proteine, direttamente implicate nella comparsa delle recidive. Lo studio presentato all’Asco invece, supportato dalla company statunitense Personalis e dalla charity Breast Cancer Now, è molto più sensibile nell’individuare le alterazioni correlate al tumore, che possono comparire nel Dna di un paziente oncologico.

Lo studio ChemoNEAR è stato condotto su 598 campioni di sangue provenienti da 76 pazienti con tumore del seno in fase precoce, prelevati al momento della diagnosi, al secondo ciclo di chemioterapia neoadiuvante, dopo l’intervento chirurgico, ogni 3 mesi nel primo anno di follow-up e in seguito ogni 6 mesi per cinque anni. Il test è risultato positivo nella totalità delle pazienti che sarebbero andate in seguito incontro a recidiva tumorale, permettendo così di prevedere la ricomparsa della malattia in media 15 mesi prima della conferma radiologica (ma in una paziente il test è risultato positivo 41 mesi prima della recidiva clinica), mentre non veniva riscontrato alcun livello di ctDNA nella biopsia liquida nelle pazienti che rimanevano libere da recidiva.

Il forte valore predittivo negativo di questo test ne suggerisce dunque l’impiego negli studi cosiddetti di ‘de-escalation’, permettendo così di risparmiare trattamenti inutili e potenzialmente dannosi alle pazienti non destinate ad andare incontro a recidive, e facendo invece anticipare le terapie a quelle pazienti che, nel corso del follow up, presentano malattia molecolare residua, rivelata da questo test.

“Dopo un intervento chirurgico e altri trattamenti – spiega il primo autore dello studio, Garcia-Murillas – le cellule tumorali possono rimanere in circolo nel sangue dei pazienti, ma sono così poche da sfuggire alle indagini di imaging (Tac, Rnm, ecc). Da queste cellule però può partire una recidiva, anche a distanza di molti anni dai trattamenti iniziali. Questo test apre dunque la strada ad un miglior monitoraggio post-trattamento e potrebbe contribuire ad estendere la durata di vita dei pazienti, consentendo di diagnosticare molto precocemente la comparsa di una recidiva.” Il test è ancora sperimentale, e dovrà essere validato in ulteriori studi prima di arrivare nella pratica clinica.

Ma non basta. È solo di pochi giorni fa la notizia di un altro test innovativo in grado di rilevare la presenza di un tumore della prostata sulla saliva, dove vengono evidenziate alterazioni del Dna che indicano un aumentato rischio di sviluppare la malattia. Un test che si può effettuare a casa (per essere poi analizzato da un laboratorio specializzato) e che è risultato più sensibile di quello standard sul sangue (il dosaggio del Psa). Anche in questo caso si tratta di uno studio condotto dall’Institute of Cancer Research di Londra, su 6 mila maschi europei di età compresa tra i 55 e i 69 anni, una fascia d’età ad aumentato rischio di comparsa di tumore della prostata. Il 40% degli uomini con riscontro di alterazioni del Dna nel test della saliva, nonostante un normale livello di PSA, presentava alla risonanza magnetica e alla successiva biopsia un tumore della prostata.

La biopsia liquida, oltre a rilevare precocemente la presenza nel sangue di mutazioni che anticipano una recidiva di tumore, può diventare anche uno strumento per guidare il medico verso una terapia innovativa per le donne con tumore del seno metastatico endocrino-responsivo (cioè con recettori per gli estrogeni) e HER2 negativo. Queste pazienti vengono normalmente sottoposte in prima linea ad una terapia ormonale associata a inibitori delle cicline, che può tenere sotto controllo la malattia per oltre due anni. Ma più a lungo le pazienti assumono questa terapia, più aumenta il rischio di comparsa della mutazione ESR1 sul recettore per gli estrogeni, che di fatto rende inutile questo trattamento perché ESR1 è una mutazione di ‘resistenza’ a questa terapia combinata.

Da una situazione di crisi, cioè dalla comparsa di ESR1, può scaturire un’opportunità di trattamento. Parte da qui la storia di elacestrant, la prima terapia ormonale ‘a target’ che ha come bersaglio molecolare proprio l’ESR1 sul recettore estrogenico, andandolo a distruggere o a inattivarlo. L’Emerald, lo studio registrativo di elacestrant, ha dimostrato nelle donne diventate resistenti all’endocrinoterapia di prima linea e trattate dunque con elacestrant, una riduzione del rischio di progressione e morte del 45%. Quindi l’ESR1, da fattore prognostico negativo, rappresenta oggi un fattore predittivo di risposta al trattamento con elacestrant, la prima terapia endocrina a target, un first in class anti-ESR1.

Le donne che potrebbero avvantaggiarsi di questa terapia innovativa sono circa la metà di quelle andate in progressione di malattia dopo terapia endocrina e inibitori delle cicline. Oltre a prolungare la sopravvivenza libera da progressione di malattia e a ridurre la mortalità, questo farmaco consente di spostare più avanti (di almeno due anni o più) il ricorso alla chemioterapia, risparmiando a queste pazienti tutti gli effetti collaterali correlati a questo trattamento. Il farmaco è stato approvato sia da Ema che da Fda in seconda linea di trattamento ormonale nelle donne con tumore del seno metastatico portatrici della mutazione ESR1. Ma all’Asco sono stati presentati i risultati preliminari di due studi di fase II che stanno valutando la somministrazione di elacestrant in associazione ad altri trattamenti in prima linea.

“Il farmaco non è ancora rimborsato da Aifa (l’approvazione Ema è arrivata a settembre 2023, ndr) – afferma la dottoressa Alessandra Balduzzi, direttore medico Menarini Stemline Italia – ma abbiamo aperto un programma di uso compassionevole per l’elacestrant, che lo rende disponibile alle pazienti italiane. All’interno di questo programma, offriamo la possibilità ai centri oncologici che lo richiedano, di inviare un campione di sangue ad un laboratorio centralizzato per dosare la mutazione ESR1, così da valutare l’eleggibilità delle pazienti a questo trattamento”.

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