Giugno sarà un mese denso, anzi densissimo. Mentre il Messico elegge la sua prima “presidenta”, Claudia Scheinbaum, dai suoi chiamata la “doctora”, e l’Islanda sceglie, per la seconda volta, una donna a capo dello stato, l’imprenditrice Halla Tomasdottir, il sesto mese del calendario si apre con un’agenda fitta di appuntamenti: tra pochi giorni i cittadini europei dei Ventisette saranno chiamati a scegliere i propri rappresentanti al Parlamento europeo; dal 13 al 15 giugno si terrà a Borgo Egnazia, in Puglia, il G7 a guida italiana, con la partecipazione eccezionale di Papa Francesco (per la prima volta nella storia, un Pontefice prende parte al summit dei Grandi del mondo); il 15 e 16 giugno il complesso alberghiero Bürgenstock, cinquecento metri sopra il lago di Lucerna sul crinale del monte Bürgenberg, ospiterà la Conferenza di pace sull’Ucraina a cui la Russia non è stata invitata e la Cina ha fatto sapere che non vi prenderà parte.
Sono eventi apparentemente sconnessi, e invece un filo rosso esiste: la performance economica europea dei prossimi dieci anni determinerà il ruolo che il Vecchio Continente sarà ancora in grado di svolgere a livello globale. L’aggressione russa all’Ucraina ha mostrato al mondo una vulnerabilità strutturale dell’Europa, prigioniera dei ricatti di Mosca per il proprio approvvigionamento energetico.
In un lasso di tempo sorprendentemente breve, l’Europa è riuscita a riorganizzarsi ma, nel negoziato mai davvero avviato per una soluzione di pace tra Kiev e Mosca, la grande assente sembra proprio l’Europa, incapace di giocare un ruolo geopolitico di rilievo. Il Green deal è un condensato di promesse mirabolanti in materia di transizione energetica ma allo stato dell’arte, in assenza di una solida strategia europea, esso rischia di stritolare le nostre imprese in una competizione impossibile con le concorrenti cinesi capaci di produrre pannelli fotovoltaici e batterie al litio a prezzi imbattibili.
Gli Usa hanno innalzato i dazi sui prodotti cinesi, ed è probabile che in autunno il Consiglio Ue faccia altrettanto, del resto il mondo non è a compartimenti stagni, viviamo in una realtà interconnessa. Per dirla semplice: più gli americani investono (e proteggono) sul loro sistema produttivo, più la sovrapproduzione cinese si dirige verso l’unico mercato ancora aperto, quello europeo, con il rischio di spazzare via imprese e lavoro europeo. E se è vero che l’Europa ha perso la sfida dell’innovazione tecnologica (persino il primato statunitense oggi rischia di essere surclassato da Pechino), il declino non è un esito inevitabile purché il futuro governo dell’Europa ponga al centro alcune questioni fondamentali: energia, materie prime critiche, protezione dell’industria e della proprietà intellettuale.
Giugno sarà dunque un mese decisivo per ridisegnare i futuri equilibri politici in Europa con ricadute concrete sull’economia e sulla capacità strategica del Vecchio Continente di ridefinire i rapporti economici e commerciali con i Grandi Partner del mondo. Se non vuole finire come un vaso di coccio tra la tentazione egemonica cinese e le spinte protezionistiche americane, l’Europa deve pensare in grande e imboccare un percorso autonomo a difesa della crescita e del lavoro europei.