Atlante geopolitico, Sahel: nuovi equilibri dopo il disimpegno francese
By
Gabriele Giannini
Il confine sud dell’Europa, il suo fianco meridionale. È così che viene considerato a buon diritto il Sahel, una striscia di terra lunga 6000 Km che taglia orizzontalmente il continente africano dal Mar Rosso all’Oceano Atlantico. Al suo interno sono compresi Mali, Ciad, Niger, Burkina Faso, Mauritania e Sudan. Paesi dalla terra rossiccia, desertica, arida al nord ma confinanti con la foresta equatoriale a sud. Stati ricchi di minerali e di metalli preziosi, sono oggi il perno intorno al quale ruota la strategia di sicurezza europea, in particolare quella di contrasto all’immigrazione illegale. Confinando direttamente con gli Stati del Maghreb che si affacciano sul Mediterraneo, le loro instabilità si abbattono come onde travolgenti sulle coste dei paesi dell’Europa meridionale, in primis l’Italia.
Oggi in balia di regimi militari, lacerato da gruppi terroristici che hanno causato nell’ultima decade più di 42.000 morti, il Sahel è un palcoscenico sul quale sono diversi gli attori internazionali a contendersi la scena. Tramontato il protagonismo francese, è oggi arrivato il momentum della Cina, della Turchia, ma soprattutto della Russia, e questo non è un bene. Dal Sahel, uno dei luoghi al mondo maggiormente colpito dal cambiamento climatico, si spostano ingenti flussi di migranti climatici che, stabilizzandosi in zone più riparate, entrano in contrasto con i loro vicini, scatenando così nuovi conflitti. Guerre all’ordine del giorno, dunque, in una delle zone più calde del pianeta in cui 30 milioni di abitanti vivono ancora in regime di insicurezza alimentare, fondandosi il PIL per il 40% sull’agricoltura.
Crocevia di rotte commerciali che dal nord-africa si dirigevano verso sud e, di converso, dal sud si spostavano verso il Maghreb, con tanto di oro, avorio e soprattutto schiavi dall’Africa nera, dall’VIII al XIX secolo il Sahel era costellato da una serie di imperi. Gli apparati governativi, tuttavia, già al tempo faticavano non poco a controllare gli interi territori, ampi e desertici, motivo per cui furono concesse alle popolazioni isolate larghe autonomie.
In particolare, nel nord dei paesi saheliani si stabilirono le popolazioni Tuareg, nomadi dalla pelle più chiara stanziati lungo il deserto del Sahara. Al sud, popolazioni di etnia bambara, dalla pelle più scura al ridosso della foresta equatoriale. Da tempo i conflitti tra questi due principali ceppi etnici continuano ad essere accesi. Complice la geografia? Complice la storia? Sicuramente, l’estensione territoriale dei paesi saheliani, con repentini cambi geografici, dal deserto alla savana fino alla foresta pluviale, ha plasmato gli usi, i costumi, in generale le caratteristiche delle diverse etnie.
Il colpo di grazia fu inferto, tuttavia, durante la Conferenza di Berlino del 1884. Immaginatevi uno stuolo di capi di Stato europei che, davanti ad una semplice mappa geografica dell’Africa, magari bevendo un brandy e fumando sigari, tra una chiacchiera e l’altra tracciano arbitrariamente con un righello i confini e le loro rispettive sfere di influenza, disinteressandosi totalmente delle molteplici etnie, tribù, gruppi religiosi che sarebbero stati costretti, da quel momento in poi, alla fedeltà ad un unico Stato unitario. Un romanzo? Nient’affatto, è andata proprio in questo modo.
E così, alla Francia toccarono in sorte Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad, Mauritania, Senegal, Costa d’Avorio, Benin, Sudan. Un bel bottino, dunque, un’area che finì per essere chiamata la Françafrique. Oggi sappiamo però a chi imputare per larga parte la responsabilità delle instabilità dell’area. Anzi, vorrei ricordare un episodio in particolare, un episodio che conferma la brutalità, la violenza, lo scempio di quello che è stato il colonialismo francese in Africa. Passata alla storia come la spedizione Voulet-Chanoine, dal nome dei due eroi del male che la guidarono nel 1899, fu una campagna francese per la conquista del Ciad. Una colonna militare “infernale”, lungo il cui tragitto soldati francesi massacrarono, abusarono e torturano la popolazione civile.
Manifestazione a sostegno del ritiro delle forze militari francesi
Insomma, la propaganda anti-francese che oggi si respira nella regione saheliana può essere facilmente giustificata dal ricordo di queste atrocità. Inoltre, al momento della decolonizzazione e dell’indipendenza, l’errore fu anche quello di privilegiare le zone meridionali di paesi come il Mali, il Ciad, il Niger, escludendo dalla vita pubblica gli attori del nord, in particolare i Tuareg. Anche questo un retaggio della colonizzazione francese che per affermarsi più fortemente sulla regione adoperava il principio del “divide et impera”. “Ma si! Separiamo i popoli! Che si facciano la guerra tra di loro! Noi almeno così avremo una presa maggiore sul territorio”.
Uomo tuareg con il turbante tradizionale
In Mali, tale differenziazione tra la capitale al sud, Bamako, una regione nettamente più ricca e la steppa arida del nord al confine con il Sahara, abitata da popoli di discendenza nord-africana, ha provocato, tra le altre cose, una radicalizzazione del fenomeno jihadista. Questo è un punto centrale. Dopo le guerre in medio-oriente, il centro del jihadismo internazionale si è spostato nel cuore del Sahel. Prendendo come esempio il Mali, dalla guerra di indipendenza algerina, diversi furono gli estremisti islamici che si stabilirono nel nord del paese. Un terreno fertile perché difficile da controllare ed estremamente povero. Il ragionamento è semplice. Più uno Stato è povero ma ricco di risorse minerarie, più gli estremisti islamici hanno presa sulla popolazione. Io, cittadino maliano, che non ho nulla, non possiedo una casa, non ho un governo che mi garantisca i servizi di base, vengo avvicinato da un gruppo terroristico che mi promette tutto. Se voglio da mangiare, me lo procura. Se voglio una casa, me la dona. Ed io mi affilio, sposo la causa, uccido per Allah, anche se Allah non c’entra nulla, anche se magari Allah non è neanche il mio Dio.
È il medesimo discorso delle zone franche italiane come Caivano. Tu Stato non sei presente, allora io mi affido ad un’altra organizzazione, il più delle volte criminale, che mi permette di sopravvivere. Ed inoltre, essendo i paesi saheliani ricchi di materie prime e di miniere poco controllate, le organizzazioni terroristiche si appropriano di quelle ricchezze, le rivendono e così finanziano le loro guerre “sante”.
Ma il peccato originale da parte occidentale, soprattutto francese, è stato uno: puntare prevalentemente sul rafforzamento degli apparati militari dei governi locali e poco sul quello delle istituzioni democratiche e sullo sviluppo economico dei popoli. Tuttavia, si sa, affidare strapotere e massima discrezione alle giunte militari non sempre garantisce il miglior risultato. In nome della lotta contro il terrorismo, infatti, diversi sono i soldati ad essersi macchiati di terribili atrocità sulla popolazione civile. Molte etnie sono state perseguitate da parte di quei soldati che ne rappresentavano solo una parte, provocando un allontanamento della società civile dalle istituzioni democratiche, o semi, e dagli attori internazionali (occidentali, per non dire francesi) che questi governi e apparati militari hanno finanziato e addestrato. E così, cade il Mali. Ben due colpi di Stato sconquassano il paese. Il primo nel 2020, il secondo nel 2021. I francesi sono costretti a ritirarsi, la nuova giunta non vuole più avere nulla a che fare con loro. Dopo un decennio di impegno nel paese, e diversi milioni investiti, Macron annuncia nel 2022 la ritirata completa delle sue truppe.
Conferenza stampa del presidente Macron sul disimpegno francese dal Mali
Non c’è niente da fare, la presenza di Parigi non è più gradita e al suo posto, nella lotta contro il terrorismo, entra in gioco la Russia, con i suoi mercenari e con le campagne mediatiche anti-francesi. Poco dopo è il turno del Burkina Faso.Stessa dinamica: due colpi di Stato, cacciata dei francesi, che si ritirano nel vicino Niger, e intromissione della Wagner a supporto delle novelle giunte militari. È intuitivo dunque pensare che la regione saheliana stia diventando un teatro di scontro tra potenze internazionali, specialmente per le risorse che questi paesi offrono (uranio per l’energia nucleare, litio per l’elettrificazione, oro perché facilmente convertibile, ma soprattutto le terre rare, diciassette metalli situati sotto la superficie terrestre essenziali per la produzione delle tecnologie verdi).
Gli impatti negativi che l’instabilità saheliana provoca sui paesi europei sono dirompenti: un aumento del numero dei migranti sui paesi di primo approdo (Italia, Spagna e Grecia in prima linea) e una crescente minaccia terroristica nel cuore dell’Europa (la Francia ne sa qualcosa). Il tipo di guerra perseguita dai terroristi islamici presenta inoltre delle peculiarità: la tecnica jihadista è del tipo “mordi e fuggi”, con l’ausilio di ordigni esplosivi improvvisati, più difficile dunque da combattere. E la risposta, però, deve essere altrettanto speciale: un costante ricorso ai droni la fa da padrone, in particolare gli MQ9 che, grazie al loro ampio raggio di azione di 1850 Km, rivestono un ruolo chiave nel controllo degli estesissimi e desertificati territori saheliani. Tuttavia, niente da fare, anche il Niger cade. Questo gli occidentali non potevano prevederlo o, meglio, nutrivano ancora una speranza. I francesi sono costretti a richiamare l’ambasciatore e ritirare le loro truppe. Ad oggi, nel paese permangono solo corpi militari statunitensi, che fanno meno clamore per il loro non-passato coloniale nella regione, e gli italiani, da sempre apprezzati per l’approccio umanitario, non solo militarista, dei loro interventi.
Drone militare MQ9 in volo
Questa è la strategia vincente. Rafforzare i governi democraticamente eletti, stimolare gli investimenti, far crescere le economie. Solo così il fenomeno jihadista potrebbe essere debellato, creando posti di lavoro, stimolando il progresso sociale della società civile. Con istituzioni più forti, ricchezze meglio distribuite, le morti diminuirebbero, il tasso di crescita economica incrementerebbe e l’intera regione non sarebbe sull’orlo del collasso. Lo stiamo capendo adesso noi occidentali, a nostre spese. Nel frattempo, i francesi si sono rintanati nel vicino Ciad, sperando di non essere scacciati anche da là. Oggi, gli sforzi occidentali si concentrano sull’area del cosiddetto Golfo di Guinea. Ghana, Togo, Benin, Costa d’Avorio, paesi popolosissimi che da alcuni anni registrano i primi fenomeni jihadisti al loro interno ma che, se dovessero cadere nelle grinfie dei terroristi islamici, provocherebbero una partenza in massa verso l’Europa attraverso le rotte migratorie saheliane. Un vero e proprio esodo biblico che non risparmierebbe nessuno. Che dagli errori si sia imparato qualcosa, ce lo auguriamo tutti. Investire sul rafforzamento delle istituzioni democratiche, più che degli apparati militari,promuovendo al contempo una crescita economica sostenuta, può ottenere grandi risultati. Bisogna spingere le persone a fare scelte diverse, a creare delle alternative di vita realisticamente percorribili. Che invece di trovare la sua sussistenza affiliandosi ad un gruppo terroristico, un uomo, una donna, un ragazzo possa piuttosto ottenerla lavorando per lo Stato, per la collettività, per rendere grande il suo paese. O meglio, l’Africa intera. Aiutiamoli.