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Atlante geopolitico, Libia: alle radici del male

Si cercano ancora i corpi. Nel fango, nelle strade trasformate in torrenti, sulle spiagge. Un’ecatombe di quasi 11.500 morti e ancora tanti, troppi dispersi. È un disastro ambientale di proporzioni bibliche quello che ha colpito la Libia una settimana fa circa. Non era mai caduta così tanta acqua dal cielo, segno di un cambiamento climatico che non risparmia niente e nessuno. L’alluvione, causata dalle forti piogge che da tempo straordinariamente colpiscono il paese, ha provocato il crollo di due dighe. L’acqua raccolta si è quindi riversata a valle sommergendo un’intera città, Derna, costruita, pensate un po’, da ingegneri italiani.

Beffardo il destino ad accanirsi su un corpo già esangue. La Libia, sconvolta da guerre intestine oramai da troppi anni, è un paese distrutto, un paese fallito dove le istituzioni hanno perso qualsiasi tipo di credibilità agli occhi dei cittadini e in cui non esiste ancora un’autorità centrale capace di esercitare un pieno controllo sul territorio. Compito ingrato sicuramente visto che la Libia è il quarto paese africano per superficie con territori prevalentemente desertici, ergo, poco controllabili. Quest’ultima tragedia, però, riguarda molto da vicino anche noi italiani. Da sempre legati al paese nord-africano sia per motivi storico-coloniali sia per motivi commerciali, Roma teme oggi, all’indomani di questa terribile tragedia, un’impennata delle partenze dei migranti.

La stabilizzazione del paese è da sempre una priorità del governo italiano che, vista la vicinanza con la Libia, è la prima a subire gli impatti delle sue instabilità. Ancora oggi nel paese vige il caos. Due legislature rivali, due uomini a contendersi il potere, fino a poco tempo fa due banche centrali e, come se non bastasse, alcuna costituzione e nessuna legge elettorale. Dunque, pur volendolo, sarebbe molto difficile convocare elezioni. Ci si è provato più volte. La prima nel 2021, mentre un secondo tentativo a inizio 2023 è andato a vuoto all’ultimo minuto. I potenti di turno, tuttavia, non sembrano disposti a condividere il loro scettro del potere. 

A damaged neighborhood, days after Storm Daniel swept across eastern Libya, in the port city of Derna, Libya, 18 September 2023. Intense rainfall from the storm in the country’s eastern region caused the collapse of two dams south of the city of Derna, sweeping away entire neighborhoods. The death toll has surpassed 11,300 and over 34,000 people have been displaced across the country. The flooding exacerbated Libya’s needs, where 800,000 people are reported in need of humanitarian assistance, the International Rescue Committee (IRC) said. EPA/STR

Oggi, l’ONU ha incaricato un suo inviato di indire nuove elezioni per la fine del 2023. Chissà se riuscirà nel suo intento, sicuramente però, va detto, la Libia è più stabile di qualche anno fa. Un’instabilità che in realtà si porta dietro sin dalla sua fondazione. Innanzitutto, il territorio è suddiviso in tre macro-regioni: la Tripolitania a nord-ovest, la Cirenaica che abbraccia tutta la parte est e il Fezzan, una regione prevalentemente desertica nelle mani di jihadisti, gruppi ribelli e boss della criminalità organizzata nel sud del paese.

È proprio nel Fezzan che si concentrano la maggior parte delle rotte migratorie che dal sud del Sahara giungono fino alle coste del mediterraneo. I migranti, e per questo consiglio vivamente la visione della pellicola “Io capitano” di Matteo Garrone da poco presentata a Venezia per rendersi conto di ciò che accade veramente li giù, attraversano il deserto, talvolta a piedi, fino a raggiungere le coste libiche e imbarcarsi per i viaggi della speranza. Il tratto in mare, dunque, rappresenta solo l’ultimo atto e una frazione infinitesimale del viaggio che queste persone percorrono, lungo il cui tragitto sono facili prede di criminali, jihadisti, militari, gente senza scrupoli che lucra da anni sul fiorente business legato all’immigrazione illegale. 

Tale instabilità atavica della regione libica è figlia della sua storia. La Tripolitania con la sua capitale Tripoli, da sempre imperiosa nel far rispettare la sua autorità centrale e la Cirenaica, al contrario, da sempre gelosa della sua indipendenza. La prima fu conquistata inizialmente dai fenici, la seconda dai greci che poi la lasciarono in eredità al regno dei Tolomei d’Egitto. Per secoli, dunque, vissero due mondi, due culture totalmente separate. Furono però i romani ad unirle per la prima volta. Poi arrivarono i bizantini, ben presto scalzati dalle orde di invasori arabi fino all’arrivo dei “Mamma… li Turchi!” e l’annessione delle regioni libiche ai territori dell’Impero Ottomano. Nonostante tale occupazione, gli ottomani lasciarono grande autonomia ai potenti locali, i pascià, che fondavano le loro economie sui tributi pagati dalle potenze straniere per commerciare in Libia e attraversarne le acque territoriali. E infatti, una curiosità che non tutti sanno, la prima volta in cui gli Stati Uniti d’America si impegnarono in un conflitto al di fuori dal loro continente fu durante la prima guerra barbaresca del 1801. Le navi mercantili americane, stufe di dover pagare alti tributi ai pascià libici, gli dichiararono guerra e con una battaglia navale riuscirono ad imporsi sulla regione. Il rapporto tra USA e Libia non è mai stato dei migliori, questo forse l’inizio della loro lunga serie di ostilità. 

Ma poi, una volta indebolito l’impero Ottomano, l’Italia, piccola potenza che voleva farsi grande in un mondo di imperi coloniali, cercò il suo riscatto e l’occasione le fu offerta dal “grande scatolone di sabbia”, così come la chiamava il socialista Gaetano Salvemini nel 1911, proprio in occasione dell’avvio della guerra italo-libica. Il poveretto non poteva sapere però che, a partire dagli anni ’50, proprio quando la Libia fu sottratta all’Italia dagli alleati dopo la seconda guerra mondiale, vennero scoperti nel paese ricchissimi giacimenti petroliferi, tra i maggiori del nord-Africa. Fortunati gli italiani! 

Astuti e tenaci, gli alleati avviarono il paese verso una simil-indipendenza nel 1951. Plasmarono la Libia come una monarchia ereditaria e portarono al potere Re Idris I. Troppo debole e alquanto distaccato dalla realtà che viveva il popolo, il Re fu spinto dagli alleati a sottoscrivere degli accordi totalmente sbilanciati: il 50% dei proventi del petrolio sarebbero andati nelle casse dello Stato, il rimanente, dunque la metà, se li sarebbero intascati aziende inglesi e americane. Non contenti, gli alleati stabilirono nel paese due basi militari. 

La monarchia non sarebbe durata a lunga però. Sull’onda del periodo delle nazionalizzazioni inaugurato dal Presidente egiziano Nasser con il canale di Suez, un gruppo di ufficiali nasseriani detronizzò il Re e instaurò nel 1969 un regime militare retto da colui che forse più di tutti ha plasmato l’identità e il carattere della Libia contemporanea, Mu’ammar Gheddafi. Il colonnello, impresso per sempre nella cultura popolare del paese, ne nazionalizzò tutte le più grandi aziende energetiche e chiuse le due basi militari inglesi e americane. Fu l’inizio delle frizioni con l’occidente. Una vendetta, quella americana soprattutto, che rimase silente negli anni per poi scatenare la sua potenza di fuoco solo nel 2011.

E così, dicevamo, i proventi del petrolio gonfiarono le casse dello Stato e, questo bisogna riconoscerlo al regime di Gheddafi, la Libia diventò in poco tempo uno dei paesi più ricchi del continente africano con un tasso di alfabetismo schizzato dal 6% all’84%. Il colonnello pianificò importanti investimenti in infrastrutture, ospedali, scuole. Il paese era dunque sulla via dell’ammodernamento. Diversi furono gli ingegneri italiani che seguirono progetti in Libia. Non dimentichiamoci che, essendo stata una colonia per quasi tutta la metà del XX secolo, tanti sono stati i nostri connazionali a stabilirsi permanentemente in Libia.

ROMA – POL – GHEDDAFI A ROMA:PER COLONNELLO CENA TRICOLORE A VILLA MADAMA. Conferenza stampa del premier Silvio Berlusconi e del Colonnello Muammar Gheddafi oggi 10 giugno 2009. ANSA/ALESSANDRO DI MEO /DC

Si stima che nel 1939, quando il paese era retto da uno dei più fidati collaboratori del Duce, Italo Balbo, il 13% della popolazione era costituito da italiani, soprattutto nella regione di Tripoli. Gheddafi, tuttavia, promosse delle vere e proprie politiche di repressione nei loro confronti fino ad espellerli dal paese definitivamente nel 1977. A tal proposito, è stata scritta un’avvincente trilogia gialla su questo tema. L’autore è Roberto Costantinti che attraverso il suo Alle Radici del male, ripercorre la vita degli italiani-libici di Tripoli e gli anni della loro successiva cacciata.

Personaggio scomodo, ambiguo, a tratti anti-occidentale, furono diversi i tentativi delle potenze occidentali (Francia e USA in primis) di fare fuori il colonnello Gheddafi. Le recenti dichiarazioni del presidente emerito Giuliano Amato a La Repubblica ci forniscono un nuovo indizio a supporto di questa tesi. Ritornando sulla tragedia di Ustica, Amato si dice convinto che a colpire quell’aereo quella maledetta notte causando la morte di 81 innocenti fu un missile francese che, indovinate un po’, intendeva piuttosto colpire l’areo di Gheddafi. Come biasimarli gli “occidentali”, il colonnello era a capo di uno dei paesi più ricchi di idrocarburi del continente africano e ostacolava non poco le mire delle aziende americane ed europee. Non collaborava, anzi. Sta di fatto che fu l’unico in grado di riunire il paese, nonostante le differenze storico-culturali, etniche e religiose. Garantiva una stabilità tra le 140 tribù libiche, tra la Tripolitania e la Cirenaica, manteneva un certo controllo finanche nel Fezzan. 

Ma, come si suol dire, non è tutto oro quel che luccica. Gheddafi reggeva un regime militare a tutti gli effetti. Non vi era alcuna traccia di pluralismo, nessuna tutela delle libertà politiche dei cittadini e, soprattutto, una distribuzione delle ricchezze del paese totalmente iniqua. I ricchi erano sempre più ricchi, ma almeno erano ricchi, i poveri sempre più poveri ma senza alcun tipo di tutela legale e di libertà. E allora, ecco presentarsi un’opportunità. Dalla vicina Tunisia giungono i primi echi della rivoluzione dei gelsomini. Il crollo del regime di Ben Ali infonde speranza. Nei giovani, nelle donne, il popolo si stava destando contro il suo tiranno. All’ inizio del 2011 le proteste raggiungono livelli impressionanti e Gheddafi si vede così costretto a rispondere con la forza. Mai scelta fu così incauta. In un attimo, il paese viene dilaniato da una terribile guerra civile tra forze filo-governative e ribelli, guidate dal Comitato di Liberazione Nazionale libico. In soccorso però arrivano… indovinate chi? 

Le potenze che attendevano ormai da anni di mettere al suo posto il colonnello, trovarono in quel preciso istante l’occasione per vendicarsi. Senza pensare, detto fra noi, agli interessi strategici di un altro partner europeo molto importante, la nostra povera Italia. Roma coltivava un rapporto privilegiato con Tripoli, forse anche per il sincero legame d’amicizia che legava Berlusconi al colonnello in tutta la prima decade degli anni 2000. Gli scambi commerciali, soprattutto in ambito energetico, erano alle stelle. Evidentemente, però, non eravamo così importanti nel calcolo delle possibilità. E così, l’ONU legittima una missione NATO capitanata da USA e Francia a “supporto” dei ribelli. In realtà bombardano pesantemente infrastrutture sensibili, avamposti militari strategici, città filo-governative.

Gheddafi allora, fiaccato internamente ed esternamente dalla potenza di fuoco della NATO, cede. Fu ucciso brutalmente nella sua città natale, Sirte, lasciando la guida della Libia dopo ben 42 anni di una dittatura, sia chiaro, efferata, durissima. Il paese otteneva la libertà, il popolo poteva riscrivere così la sua storia. E adesso però? Cosa sarebbe accaduto? Qualcuno, compresi gli occidentali, aveva la benché minima idea di come sarebbero andate le cose? Il caos generato dal cambio di regime portò il paese a dividersi, a lacerarsi ulteriormente. La Libia si trasformò nel breve tempo in uno Stato fallito, in una fucina di gruppi terroristici, in un fertile campo da gioco per i criminali e nel punto di partenza dell’immigrazione illegale verso l’Europa. 

Si può dire, ma solo a bassa voce. Un pensiero proibito cominciò a farsi largo nella mente delle persone. Qualcuno cominciò a chiedersi se non fosse meglio la situazione al tempo del colonnello che, seppur con la forza e con il sangue, garantiva una certa stabilità. La libertà è costata cara. 

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