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Alzheimer, il ladro dei ricordi tra speranze e delusioni

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Velasco25 Articolo

Sono oltre 1.200.000 in Italia le persone affette da demenza, di cui circa 720mila da malattia di Alzheimer, un ladro dei ricordi con il quale fanno i conti molte famiglie e che arriva in modo quasi silenzioso, con piccole dimenticanze, fino a impedire ai pazienti di riconoscere le persone più care. Contro l’Alzheimer la ricerca non si è fermata, ma tra speranze e delusioni gli ultimi mesi sono stati un po’ come montagne russe per pazienti e familiari.

A ricordarlo in occasione della Giornata mondiale dedicata alla malattia è Paolo Maria Rossini, direttore Dipartimento Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele di Roma, che per l’occasione si illumina di viola, il colore del nontiscordardimé, fiore simbolo della malattia.

Tra stop in Ue e novità dal pharma

“Avevamo chiuso il 2022 con un pò di amaro in bocca per malati, famiglie e addetti ai lavori legato al fatto che il primo farmaco che aveva dimostrato una qualche efficacia nel modificare l’andamento naturale della malattia, approvato negli Usa (aducanumab) non era stato poi approvato in Europa – ricorda il neurologo – a causa di una serie di motivazioni peraltro per lo più condivisibili: scarsa efficacia clinica, effetti collaterali relativamente frequenti e talvolta allarmanti, elevati costi diretti e indiretti.

Il 2023 “si è aperto con l’approvazione da parte della Food and Drig americana di un altro anticorpo monoclonale contro la beta-amiloide, il cui percorso approvativo è ora all’attenzione delle autorità dell’Agenzia europea per il farmaco. La molecola si chiama lecanumab. In questo caso l’efficacia sembra maggiore, gli effetti indesiderati molto minori, mentre permangono irrisolti i problemi relativi ad i costi diretti ed indiretti”, continua Rossini.

Le novità in vista

Ma la corsa alle terapie anti-Alzheimer non si ferma. “Ci sono infatti diversi farmaci in attesa di terminare la Fase III che -se corroborata da risultati positivi- permette poi la richiesta di immissione sul mercato; alcuni di questi sono somministrabili sottocute (come l’insulina per il diabete) e non richiederebbero quindi una onerosa e costosa fase di distribuzione ospedaliera quale quella richiesta per effettuare una flebo. Tra questi – dice Rossini – mi pare utile segnalare quello con il valitramilprosato perché sarebbe la prima formulazione assumibile per bocca, e  agirebbe non solo su beta-amiloide, ma anche su tau (un altro ‘killer’ alla base della formazione dei grovigli neurofibrillari all’interno dei neuroni attaccati dai processi neurodegenerativi), avrebbe pochissimi effetti collaterali e di scarso rilievo e sembrerebbe in grado di bloccare l’evoluzione della malattia”.

L’uso di tanti condizionali “è d’obbligo – avverte cauto il neurologo – poiché tutte le informazioni sin qui disponibili arrivano dalla ditta produttrice e necessitano quindi di una valutazione approfondita da parte di un comitato neutrale non appena la medesima azienda dovrà aprire i propri archivi per mostrare i dati originali al fine di iniziare un percorso approvativo”.

Nel frattempo…

Intanto ora cosa si fa? Ci sono “i farmaci ‘sintomatici’ con tutti i limiti ben noti, c’è l’attenzione sullo stile di vita, e sempre più solide sono le evidenze scientifiche a supporto del fatto che fare ginnastica tutti i giorni e dedicare tempo ad attività cognitive aumenta la resistenza dei neuroni e dei circuiti nervosi superstiti”. Ci sono poi i fattori di rischio da ridurre o eliminare del tutto (obesità, fumo, eccesso di alcool, controllo diabete, controllo pressione, controllo cardiopatie etc.).

Energie contro l’Alzheimer

Ma non è tutto. “Stanno emergendo ipotesi di trattamento che attualmente dobbiamo ancora considerare sperimentali, in cui si utilizzano vari tipi di energie (campi magnetici pulsanti, correnti elettriche di bassa intensità, ultrasuoni focalizzati, onde d’urto) in grado di attivare in modo selettivo ‘centraline’ cerebrali particolarmente importanti per la memoria, l’orientamento, il linguaggio, il tono dell’umore etc”.

“Sembra che sedute quotidiane della durata di alcune decine di minuti, ripetute dal lunedi al venerdi per 3 o 4 settimane consecutive – dice Napolitano – siano in grado di mantenere o addirittura di migliorare le funzioni connesse ai circuiti stimolati per i 6-12 mesi successivi”.

Il progetto promosso da Airalzh

E’ questa la strategia tentata da Airalzh Onlus (Associazione Italiana Ricerca Alzheimer),. Alberto Benussi, Ricercatore Airalzh presso la Clinica Neurologica degli “Spedali Civili” di Brescia, grazie ad uno studio finanziato tramite il Bando AGYR 2020 (Airalzh Grants for Young Researchers), è riuscito a ottenere significativi miglioramenti per quanto riguarda la memoria a lungo termine nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Il tutto proprio grazie a una “stimolazione elettrica a correnti alternate”, un approccio non invasivo che permette di risincronizzare le “onde” cerebrali alla frequenza corretta (ovvero la gamma).

“Il nostro studio – ha detto Alberto Benussi – prevede la somministrazione di una debole corrente elettrica, applicata nella zona del precuneo, in modo tale da risincronizzare i ‘ritmi cerebrali’ che, nella malattia di Alzheimer, tendono a ‘rallentare’. Questa applicazione, in un gruppo di pazienti, ha indotto un miglioramento delle capacità cognitive rispetto alla stimolazione placebo. Oltre che economica, questa metodologia è molto versatile e potrebbe essere applicata al domicilio dai caregiver dei pazienti, per periodi prolungati, in modo tale da ottenere potenzialmente effetti a lungo termine”.

I pazienti coinvolti sono stati 60, uomini e donne con un’età media di 72 anni. I trattamenti sono iniziati nel gennaio 2021 e si sono conclusi nel maggio dello stesso anno. Il Team per ogni paziente, ne ha praticati due, della durata di 60 minuti, uno “reale” ed uno con “effetto placebo”, a distanza di 7 giorni l’uno dall’altro. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su “Annals of Neurology”. Attualmente si sta studiando l’effetto a lungo termine della stimolazione applicata direttamente acasa del paziente dal caregiver stesso, ogni giorno, per 4 mesi consecutivi. Per cercare in questo modo di ottenere un effetto più duraturo.

Interceptor e lo strumento Made in Italy

A fine ottobre terminerà l’importante progetto nazionale Interceptor, voluto e finanziato dal ministero della Salute e Agenzia Italiana per il farmaco, che per quasi 5 anni ha monitorato oltre 350 soggetti con una forma molto iniziale di declino cognitivo in tutta Italia. “All’inizio dello studio in tutti i soggetti reclutati sono stai raccolti dei ‘biomarcatori’ di sangue (per la genetica), di liquor (per dosare i ‘killer’ più noti quali beta amiloide e tau), di immagini (Risonanza Magnetica per misurare il volume dell’ippocampo e PET per misurare il metabolismo delle aree cerebrali), di elettroencefalogramma (per misurare le connessioni cerebrali e l’architettura delle reti neurali) e infine di test neuropsicologici avanzati. Poiché nel corso del follow-up poco meno di un centinaio dei soggetti reclutati è diventato ‘demente’ (cioè ha sviluppato la malattia vera e propria), al termine del follow-up si potrà capire quale combinazione di biomarcatori è stata in grado di prevedere con il massimo di accuratezza l’eventuale progressione dei sintomi già al tempo 0 quando questi erano minimi e non costituivano un quadro di demenza vera e propria”, spiega Rossini.

Con queste informazioni “l’Italia diverrà probabilmente il primo Paese ad avere uno strumento validato per identificare nelle fasi molto iniziali i soggetti che sono ad alto rischio di divenire dementi e di concentrare su questi tutti gli interventi terapeutici e riabilitativi disponibili inclusi gli eventuali farmaci in arrivo, la cui efficacia è tanto maggiore quanto prima vengono somministrati nelle fasi iniziali di malattia”.

 

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