PGIM_970x250_HEADER

Tunisia, Kais Saied: l’autocrate che si prende gioco di noi

PGIM_970x250_ARTICOLO
Velasco25 Articolo

È l’apocalisse. La piccola isola di Lampedusa è al collasso e siamo solo a metà settembre. migliaia i migranti presenti all’interno dell’hotspot, più degli abitanti, 4500 arrivati solo in una notte. Giungono con imbarcazioni di fortuna, dei veri e propri gusci di latta che incredibilmente, aiutati da un mare calmo e placido, approdano sul molo dell’isola senza problema alcuno. Sono disidratati, affamati, chi con arti offesi, chi con ferite visibili. Dio solo sa cosa hanno passato. La situazione è fuori controllo e a niente sono serviti i proclami e i patti firmati con il governo del Paese da cui la maggior parte di queste persone fugge, la Tunisia.

Non accennano a diminuire neppure i naufragi però. È l’8 agosto 2023. 41 corpi vengono recuperati in mare, un mare che si tinge di rosso ogni giorno di più e che a poco poco si trasforma in una silenziosa tomba di uomini senza volto. Ancora una volta una tragedia annunciata e un’occasione mancata. Segno di una visione strategica di lungo periodo assente. E, ancora una volta, tutto ciò accade a poche miglia dalle coste italiane, nell’indifferenza generale, perché certe cose, lo sappiamo, è meglio non vederle. Persone che fuggono da Paesi in guerra, o sull’orlo del tracollo economico o semplicemente, in cerca di una nuova vita che il modello occidentale promette. Sono affogati in un mare forza nove a largo di Lampedusa, una tempesta che non ha impedito a dei poveri disperati di tentare la via della salvezza in Europa. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima già più di 1800 morti nel Mediterraneo dall’inizio del 2023. Un fenomeno fuori controllo, al quale ci si approccia ancora una volta, e non sono bastate le tante, troppe tragedie nei nostri mari, da un punto di vista puramente emergenziale, senza una visione di lungo periodo capace di affrontare l’entità strutturale della questione.

Qualcosa sta però cambiando. Mentre un tempo il 90% dei migranti partiva delle coste libiche, dall’inizio del 2023 i 2/3 giungono direttamente dalla Tunisia. Pensate che dei 7500 sbarcati nelle ultime ore a Lampedusa, 6000 provengono dalla cittadina costiera di Sfax, sulla costa tunisina. Perché questo cambio di passo? Perché proprio ora? Cosa sta accadendo in un Paese situato a soli 74 km di distanza dalla Perla Nera del Mediterraneo, l’italiana Pantelleria? Chiunque sia passato da questa incantevole isola, si è spesso trovato ad ascoltare radio tunisine o ad ammirare le rosee coste di Capo Bon all’ora del crepuscolo.

È un destino incrociato alla Tunisia quello italiano, oggi più che mai. Occupata dai Fenici, che qui fondarono Cartagine nel IX secolo a.C., vi si stabilirono i Romani dopo aver raso al suolo la città, non senza fatica. L’eroico condottiero cartaginese Annibale valicò le Alpi accompagnato da giganteschi elefanti e giunse fino alle porte della Città Eterna. Dopo i Romani fu il turno dei Bizantini, scalzati dalle orde di invasori arabi che convertirono le popolazioni tunisine all’Islam. Di seguito la Tunisia entrò a far parte dell’impero Ottomano che lasciò, tuttavia, un notevole margine d’azione ai sovrani locali, i Bey di Tunisi. A fine 800, in preda alla febbre coloniale del tempo, si insinuò allora la Francia, che la sottrasse alle mire espansionistiche italiane quando in realtà già un cospicuo numero di nostri connazionali dimorava nel paese. Un esempio illustre? Claudia Cardinale, diva dalla bellezza senza tempo che ha segnato la storia del cinema, lasciandoci in eredità capolavori come 8½ e C’era una volta nel West. La Cardinale nasce proprio in Tunisia da genitori di origini siciliane emigrati nel paese già alla fine dell’800.

Annibale attraversa le Alpi con gli elefanti. Immagine generata con l’intelligenza artificiale

L’indipendenza di Tunisi dalle potenze straniere viene però sancita solo nel 1956. Da quell’anno il governo viene retto da tre partiti secolari fino al colpo di Stato del 1987 che porta al potere il generale Ben Ali.

Da sempre un unicum nel mondo arabo, la Tunisia abrogò sin da subito, forse proprio per la natura secolare dei partiti che l’hanno governata, il doppio regime: coranico e civile. L’emancipazione femminile, fiore all’occhiello della politica tunisina, è sempre stata un esempio di avanguardismo nel mondo arabo. Le donne ottennero la libertà di non indossare il velo e il loro diritto di voto fu garantito sin dal 1956. Non stupisce, dunque, come proprio dalla Tunisia sia partita la scintilla che ha poi innescato il processo passato alla storia come “primavera araba”, un fenomeno di massa che ha provocato un cambio di regime (il più delle volte disastroso) in Tunisia, Libia, Egitto e Siria.

È il 7 dicembre 2010 e un giovane ambulante, Mohamed Bouazizi, si da fuoco davanti al palazzo del governatorato come segno di protesta per la disoccupazione dilagante che colpisce i ceti più umili. Il paese è stretto nelle mani di Ben Ali da oltre 23 anni. Il generale ha instaurato un regime autoritario, a dir poco corrotto e intriso di clientelismo. Il popolo è dunque stanco, e forse è proprio questa maturità politica, frutto della storia culturale tunisina, ad aver reso il paese il precursore mondiale delle primavere arabe. Attraverso un inedito utilizzo dei social network, le proteste hanno raggiunto un numero di partecipazione popolare elevatissima. Sono i più giovani a farla da protagonisti. Considerato un po’ il ’68 dei Paesi arabi, il fenomeno sociale delle primavere arabe è ancora oggi oggetto di studio.

E dunque, in Tunisia la sommossa spinge il generale a rassegnare le dimissioni e fuggire all’estero. Il Paese è nel caos. Malauguratamente, però, la democrazia non è cosa semplice. Non è immediata, automatica. Abbisogna di tempo, le basi devono essere solide. Ciononostante, nel 2014 viene promulgata una nuova Costituzione e il paese diventa una Repubblica Semipresidenziale con un governo bicefalo, Primo Ministro e Presidente, e un’Assemblea Nazionale con funzioni legislative. Tuttavia, come dicevamo poc’anzi, le basi sulle quali si fonda questo nuovo esperimento democratico sono troppo fragili. La classe dirigente inesperta, le differenze tra partiti abissali, l’arte del compromesso poco praticata. E dunque, i governi che si succedono dal 2014 in poi sono cedevoli, deboli, instabili e purtroppo, duole dirlo, anche corrotti. In poche parole: poco credibili. Il Paese è sull’orlo della paralisi istituzionale.

Ed è dunque in questo momento che compare sulla scena politica tunisina come deus ex machina lhomo novus, Kais Saied. Il salvatore, l’incorruttibile. In realtà, un ordinario professore di diritto costituzionale estraneo alle trame politiche del paese che stravince le elezioni presidenziali del 2019. In che modo? Ma sull’onda di una classica propaganda populista, quella dell’uomo forte che scende in politica con una sola missione: riportare l’ordine. Saied viene aiutato da una congiuntura particolare: una travolgente crisi economica. Il Covid e lo scoppio della guerra in Ucraina sanciscono il collasso della fragile economia tunisina: inflazione all’11%, disoccupazione al 15,5% (quella giovanile al 40%), una perdita di valore della valuta locale del 55%, un debito pubblico schizzato al 90%. Un quadro nefasto per un Paese che non riesce più ad importare beni e prodotti a causa dei prezzi proibitivi e che si trova sull’orlo del fallimento.

Una situazione alquanto complicata che ha spinto Saied, legittimandolo, ad accentrare il potere nelle sue mani. Facendo leva sulle paure delle persone, fiaccate da un contesto economico già fortemente precario, il Presidente modifica allora la Costituzione. Nel 2021, la Tunisia si trasforma di fatto in una Repubblica Presidenziale. Saied ha esautorato l’Assemblea Nazionale dalle sue funzioni, incarcerato il leader del più importante partito di opposizione, additandolo come traditore e colpevolizzandolo di tramare nell’ombra con le potenze straniere per distruggere l’economia tunisina. Sono stati arrestati altresì giuristi, editori indipendenti, politici in una spirale pericolosa che ha riportato il paese indietro di dodici anni. Tuttavia, agli occhi della narrazione ufficiale, Saied rimane l’unico capace di risollevare la Tunisia dalla pesante crisi economica che la attanaglia.

Ma cosa lega la sua ascesa al potere con l’impennata migratoria esponenziale verificatasi negli ultimi mesi dal Paese?

Da tempo il presidente rispolvera un vecchio topos della “letteratura” populista. Sceglie un diversivo che mascheri i suoi insuccessi in politica economica. E cosa c’è di più facile che prendersela con i più deboli? Il capro espiatorio prescelto sono per l’appunto i migranti, che dal sud del Sahara illegalmente arrivano in Tunisia (in realtà sono solo 21.000 gli illegali su una popolazione di 12 milioni) e che già da molti anni vivono e lavorano armoniosamente con il tessuto sociale del paese. Almeno fino a pochi anni fa. Oggi, infatti, sono il bersaglio predefinito del governo. Il leitmotiv è sempre il medesimo: la crisi economica è stata indotta dalle potenze straniere, da chi lavora nella finanza, ma soprattutto dai poveri migranti sub-sahariani che, giungendo in massa, si appropriano del lavoro dei tunisini, alterando demograficamente il tessuto sociale del Paese (una simile sostituzione etnica tanto paventata da un nostro diretto connazionale).

Le politiche fin qui implementate non sembrano tuttavia rendere il Presidente all’altezza della situazione. In tale contesto, il FMI ha offerto un salvataggio da 1,9 mld di dollari per evitare il default del Paese, dei prestiti vincolati tuttavia all’implementazione di una serie di riforme. Saied ha prontamente rifiutato l’offerta, sostenendo che non saranno i diktat stranieri a determinare le sorti della Tunisia. In realtà la paura del Presidente è una: quella di trovarsi costretto, una volta accettati i fondi, ad implementare politiche che possano ledere la sua popolarità e dunque delegittimarlo agli occhi di una popolazione tunisina che ancora crede molto nel suo progetto politico, non si sa bene quale.

La crisi economica, tuttavia, non accenna a diminuire. E le tensioni sociali aumentano. E il razzismo dilaga, così da costringere sempre più persone a fuggire. E allora il numero degli sbarchi cresce. E le morti in mare sono più frequenti. Ma la sacrosanta e legittima voglia di libertà e di benessere non passa. Nonostante i campi di prigionia, i soprusi, le torture, nonostante tutti gli abusi alla dignità umana, queste persone non smettono di sfidare ogni volta il destino e mettersi in viaggio, alla ricerca di una nuova vita. Ma in tutto ciò, la presenza dell’Europa dov’è? Quale sarebbe la strategia comune? Siamo schiacciati sotto l’onda del miope populismo sovranista. Le elezioni europee del 2024 si avvicinano. Questo non è un bene per l’Italia.

 

 

 

 

PGIM_300x600_ARTICOLO side
PS25 Box

Leggi anche

Ultima ora

Iscriviti alla nostra Newsletter

ABBIAMO UN'OFFERTA PER TE

€2 per 1 mese di Fortune

Oltre 100 articoli in anteprima di business ed economia ogni mese

Approfittane ora per ottenere in esclusiva:

Fortune è un marchio Fortune Media IP Limited usato sotto licenza.