Da produttore cinematografico a presidente di una squadra di calcio: Luigi De Laurentiis racconta il suo percorso professionale e umano e i valori ereditati dalla sua famiglia.
Era il 1975 quando il nonno Luigi e il papà Aurelio diedero vita alla Filmauro. Oggi Luigi De Laurentiis rappresenta la terza generazione di una famiglia di produttori cinematografici. Dal nonno, oltre al nome, Luigi ha ereditato anche la passione smodata per la settima arte. Ma non solo. La Filmauro è anche la controllante di due società calcistiche, il Napoli, laureatosi di recente campione d’Italia, e il Bari. A ricoprire la carica di presidente del club pugliese oggi è proprio Luigi De Laurentiis. “Diversificare i business rende la vita più divertente. E si diventa più competitivi”.
L’Italia è il Paese europeo con la più alta concentrazione di imprese familiari. Qual è, sulla base della sua esperienza personale, il loro valore?
Al di là dell’innegabile valore strategico, credo che le imprese familiari rappresentino la bellezza e la cultura del nostro Paese: tante famiglie che, di generazione in generazione, si tramandano saperi e competenze. Tutto ciò consente all’Italia, un Paese relativamente piccolo, di eccellere a livello internazionale. Il vero valore è l’aspetto culturale, identitario. Incontro spesso famiglie di imprenditori che si tramandano il business da generazioni e ogni volta esercitano su di me un grande fascino. La storia di un’impresa è ciò che ne definisce la bellezza e la solidità. È bello che l’Italia possa fregiarsi di essere uno dei Paesi col più alto numero di family business.
Il passaggio generazionale è un momento delicato. Quali difficoltà si affrontano per garantire la preservazione del business?
Il problema italiano nei passaggi generazionali è cosa nota. Credo dipenda anche dalla cultura piramidale che, senza ricorrere a generalizzazioni, ancora anima molte aziende e a volte finisce per rallentare il passaggio di consegne. Ci sono alcuni scenari, abbastanza frequenti, che creano problematicità. Il primo è quello in cui le nuove generazioni non sono interessate al business e dunque scelgono strade diverse. Oppure sono interessate ma si rapportano coi padri in modo conflittuale. Ancora, può succedere che i figli sposino a priori la causa aziendale, perché sentono di dover seguire le orme familiari e magari restano scontenti per tutta la vita.
A lei com’è andata?
La mia storia inizia nel momento in cui vengo messo al mondo e mi viene dato il nome di mio nonno: una cosa che, crescendo, mi ha riempito d’orgoglio. A mio nonno ero legato da un affetto profondo e poi era una persona molto rispettata nel suo lavoro, sia a livello umano che professionale. Sin dalla tenera età, ho sentito che un giorno avrei voluto anche io entrare a far parte di questo gruppo. ‘Luigi e Aurelio De Laurentiis presentano’: per me è sempre stato motivo di orgoglio. Peraltro l’entertainment, la possibilità di intrattenere il prossimo, faceva parte anche del mio carattere. Sono cresciuto quindi col desiderio di entrare nel business di famiglia.
Dopo il liceo non ha avuto dubbi.
A 18 anni mio padre mi chiese: ‘Vuoi studiare economia a Londra o cinema a Los Angeles?’. Non ci ho pensato un attimo: ho scelto gli Stati Uniti. A Los Angeles ho frequentato la University of Southern California, che fra i suoi ex studenti annovera figure del calibro di George Lucas, Steven Spielberg e Robert Zemeckis. Era la Harvard del cinema e io volevo assolutamente intraprendere quella strada.
A quel punto è entrato in Filmauro.
Il mio è stato un percorso fatto di grandi sforzi e fatica. Ho insistito per fare una lunga gavetta, che toccasse tutti i passaggi che ritenevo fondamentali. Mio padre non mi ha dato una direzione precisa. Certo, mi ha indirizzato, ma solo in maniera generica. Quando tuo padre è molto preso dal lavoro, a un certo punto ti ritrovi a dover fare da te. Ho cercato allora di comprendere quali fossero i diversi processi, facendoli miei. Si parte da ciò che ti convince di più, poi però devi confrontarti anche con quelle aree apparentemente più noiose, ostiche, meno rilevanti. Nel percorso di crescita di un’azienda, ogni dettaglio è importante. Anche l’ultimo bullone del macchinario in fondo alla fabbrica.
Ci parli dei prossimi progetti targati Filmauro.
Abbiamo finito da poco la seconda stagione di ‘Vita da Carlo’, la serie tv di Carlo Verdone, che uscirà su Paramount+. Stiamo inoltre lavorando a una docuserie sull’incredibile annata del Napoli, di cui abbiamo filmato tutto il dietro le quinte. Uscirà alla fine di quest’anno. E poi siamo alle prese con quattro serie tv. Oggi il prodotto film è un po’ in crisi e per dei produttori indipendenti come noi non è facile. Per questo ci stiamo specializzando sulla serialità. Credo che le serie tv siano affascinanti; un modo diverso di raccontare, più lungo e articolato. È una bella sfida.
Quali sono le competenze necessarie per guidare oggi una grande azienda?
Credo sia fondamentale partire dal basso. Capire i meccanismi che regolano la catena lavorativa, a partire dalle primissime maestranze, fino alla chiusura del cerchio. Soltanto conoscendo tutti i passaggi si possono prendere decisioni consapevoli e mettere a punto la strategia vincente per il futuro. Oggi le tecnologie consentono delle accelerazioni importanti, ma solo se conosci il tuo business da capo a fondo puoi capitalizzare le opportunità che si presentano davanti a te.
Che ruolo gioca la formazione in questo processo?
La formazione è essenziale. Ai giovani consiglierei in primis di studiare ciò che davvero li appassiona. E poi di fare esperienze in aziende diverse. Oggi un ragazzo che studia all’estero può laurearsi già a 21 anni. Dai 21 ai 23 può frequentare un master. A quel punto può farsi un paio d’anni all’estero, magari in due aziende e in due Paesi diversi. Toccare con mano come si vive in altri contesti ti permette di comprendere meglio come si comporta l’essere umano, un aspetto decisivo quando vendi un prodotto o un servizio. Viaggiare mi ha permesso di essere davvero competitivo dal punto di vista culturale. Ai ragazzi consiglierei quindi di vivere lontano da casa, di sentirsi scomodi: è là che uno scopre se stesso e gli altri.
Lei proviene da una famiglia di grande tradizione nel campo della produzione cinematografica. Che cosa ha significato il cinema nella sua vita?
Il cinema nella mia vita è stato tutto: lavoro, emozioni, grandi risate. La mia famiglia si è specializzata nel mondo della commedia, che fossero romantic comedies, dramedies o commedie pure. Abbiamo sempre vissuto in mezzo a persone che volevano far ridere, fra registi, sceneggiatori e attori. L’attore comico poi è una figura affascinante perché contiene in sé una componente drammatica. Il cinema è stato anche una fonte di costante arricchimento personale, perché è un business che si basa sulla cultura. Devi vedere tanti film, leggere tanti libri, comprendere il funzionamento della società, seguire i trend. Nella mia famiglia il cinema è stato totalizzante, a casa si parlava solo di quello. E di cucina: il mio bisnonno Aurelio aveva un pastificio.

Che cosa ha imparato lavorando accanto a suo padre Aurelio?
Da mio padre ho imparato tantissimo. È sempre stato un grande cultore dello sviluppo in-house, ricorrendo all’outsourcing il meno possibile. Una scelta al tempo stesso molto valida e faticosa, perché ti costringe a imparare più mestieri, ma in questo modo si diventa competitivi e in grado di cogliere le opportunità che si presentano lungo il percorso. Mio padre mi ha insegnato a diversificare. Noi facevamo cinema, quella era la mia fissa e lo è ancora oggi. Grazie a mio padre, un uomo curioso, che non si è mai fermato davanti a niente, ho capito però l’importanza di diversificare e il grandissimo senso di libertà che ne deriva.
Proprio com’è successo alla sua famiglia col calcio.
Esatto. Uno può fare lo stesso mestiere per tutta la vita, mantenendo intatta la passione. Ma è anche vero che se ci si ritrova a gestire realtà diverse, facendole proprie, la vita può diventare più divertente, meno ripetitiva. Nuove avventure aprono a nuovi entusiasmi. Su questo punto lo ringrazierò per tutta la vita: mi ha reso più coraggioso.
Da produttore cinematografico a presidente di una squadra di calcio. Com’è cambiato il suo ruolo di imprenditore?
Diventare presidente del Bari mi ha portato a sviluppare una flessibilità ancora maggiore nel saper risolvere qualunque problema operativo, creativo, strategico. Più si diversifica e più ci si abitua a gestire le problematiche e a prendere decisioni migliori per l’azienda.