L’anoressia in Italia è esplosa negli anni di Covid-19, con pazienti sempre più giovani. Dai segnali ‘spia’ al trattamento, focus con Edoardo Mocini
Niente olio, zucchero o intingoli, cibi sminuzzati in pezzi sempre più piccoli, controlli ossessivi sulla bilancia e occhi sempre più tristi. Anoressia in greco vuol dire “mancanza di appetito”, ma in realtà le persone che soffrono di anoressia nervosa non lamentano quasi mai una perdita di appetito. Lo stimolo della fame, piuttosto, si moltiplica con la riduzione delle calorie nel piatto, e controllarlo diventa una sfida.
L’anoressia è uno dei disordini del comportamento alimentare più diffusi: secondo gli ultimi dati sono più di 3 milioni le persone che in Italia soffrono di queste patologie, e più di 3.000 ogni anno perdono la vita.
In pandemia, poi, i casi si sono moltiplicati e i pazienti sono diventati sempre più giovani. Ragazze e ragazzi, ma anche bambini al di sotto dei 10 anni, che la vita dovrebbero divorarla e invece si affamano, spegnendosi lentamente sotto gli occhi di genitori e insegnanti. Si può tracciare un identikit dei pazienti oggi? “I disturbi alimentari possono colpire chiunque, senza distinzione di genere, età, estrazione sociale. Più che di identikit, possiamo parlare di ‘popolazioni a rischio’. Fra queste sicuramente il genere femminile e la giovane età rappresentano quelle maggiormente esposte al pericolo di sviluppare disturbi dell’alimentazione. I pazienti maschi rappresentano il 5-10% dei casi”, spiega Edoardo Mocini, medico esperto in Scienza dell’Alimentazione, ricercatore di Università Sapienza e Policlinico Umberto I di Roma.
I dati di una survey condotta dal ministero della Salute “ci confermano questo trend. Nella fascia giovanile, i maschi rappresentano il 10%. Il 30% della popolazione ha meno di 14 anni”. Ma perché i casi sono tanto cresciuti negli anni di Covid-19? “Nel post pandemia abbiamo assistito a un aumento dei casi del 40%. Pur non essendo dimostrato in maniera diretta, è verosimile pensare che questo sia correlato alle (necessarie) misure di isolamento durante il lockdown, che hanno messo a dura prova la salute mentale delle persone, e dei giovanissimi in particolare”.
Quali sono i segnali spia da monitorare? È una domanda tanto importante quanto difficile. L’aspetto rilevante è la compromissione della qualità di vita in relazione al comportamento alimentare. Pesarsi ossessivamente, eliminare categorie di alimenti, sperimentare cali di peso improvvisi, episodi di abbuffata compulsiva, vomito autoindotto (anche solo il sospetto) sono tutti segnali che possono spingerci a rivolgerci al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta per chiedere aiuto ed, eventualmente, un approfondimento diagnostico”, raccomanda Mocini.
La buona notizia è che dall’anoressia si può guarire. “Il trattamento è multidisciplinare e personalizzato – precisa Mocini – Vede la collaborazione di medici psichiatri e neuropsichiatri infantili, medici dietologi, pediatri e internisti, dietisti, psicologi psicoterapeuti, educatori e altre figure che contribuiscono alla diagnosi e alla terapia in diversi setting di terapia a seconda della situazione clinica, dall’ambulatorio alle residenze fino ricoveri ordinari o in regime di day hospital”.
L’Istituto superiore di sanità (Iss) ha mappato l’offerta dei centri specializzati in Italia: sono emerse delle criticità. Nel report figurano 126 strutture sparse su tutto il territorio nazionale, di cui 112 pubbliche e 14 appartenenti al settore del privato accreditato. Ebbene, il maggior numero dei centri (63) si trova nelle regioni del Nord (20 in Emilia Romagna e 15 in Lombardia), al Centro ve ne sono 23 (di cui 8 nel Lazio e 6 in Umbria), mentre 40 sono distribuiti tra il Sud e le Isole (12 in Campania e 7 in Sicilia).
“Sicuramente l’offerta dei servizi è disomogenea, con una incredibile carenza al Centro-Sud, in particolare nel Mezzogiorno. Tuttavia è importante sottolineare come i servizi siano insufficienti in tutta Italia – afferma Mocini – e ci sia la necessità di implementare non solo le equipe dedicate, ma anche le Uoc di Nutrizione Clinica e di salute mentale in generale, che possono aiutare a identificare questi pazienti precocemente”. Servizi insufficienti si traducono in cure mancate. “Purtroppo un enorme numero di pazienti non arriva mai a una diagnosi, proprio perché i servizi sono in grande affanno perfino per accogliere i casi gravi, figuriamoci situazioni più sfumate o complesse. Servono investimenti importanti e massicci – conclude Mocini – per rivedere la struttura complessiva del nostro Servizio sanitario nazionale, che risulta carente proprio nei settori della nutrizione clinica e della salute mentale, con grande danno sia per i pochi operatori coinvolti, continuamente a rischio di burnout, sia per i pazienti, che non trovano risposte al loro bisogno di salute”.