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Mps, Draghi, Franco e l’arte di fare le cose

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Velasco25 Articolo

È successo già con le nomine, a partire dal cambio al vertice di Cdp e Rai. Succede anche ora, con uno dei dossier più spinosi sul tavolo: il destino di Mps. Il livello di autonomia dalla politica, e dal groviglio di veti incrociati che spesso la sostiene, si misura nel caso del premier Mario Draghi con l’esercizio determinato dell’arte di fare le cose.

Quando le decisioni passano per il Consiglio dei ministri, e devono quindi rispettare una dimensione collegiale, Draghi utilizza lo spazio disponibile per il confronto. Ma lo stallo, l’attesa o il temporeggiamento durano fino alla soglia della sopportazione, quando si tratta di mediare rispetto alla posizione di una delle forze che compongono la maggioranza. La Lega per le misure restrittive anti-Covid, il Pd per lo sblocco dei licenziamenti, il Movimento Cinquestelle per la giustizia. Il premier fissa la tolleranza massima e concede fino a quando ritiene possibile farlo.

Quando, invece, le decisioni come nel caso di Mps sono dirette, espressione di un indirizzo che Draghi condivide con il Tesoro, e con il ministro dell’Economia Daniele Franco, lo schema cambia. Ci sono problemi che cercano soluzione, dossier che devono prendere una direzione piuttosto che un’altra. Ci sono persone considerate più adatte, più funzionali di altre. In questi casi, le decisioni arrivano senza che la politica possa influire. O, almeno, senza che possa farlo con i tempi, le modalità e i rituali a cui altri governi l’avevano abituata. Non servono consultazioni preventive e benedizioni. Sono cambiati i vertici di Cdp, della Rai, ma anche di Fs, perché doveva cambiare l’indirizzo strategico, la gestione o la missione delle società partecipate dal Mef. Che si comporta come un azionista di controllo: fa le nomine, incide e, nel caso di Mps, apre una trattativa con l’unica banca, Unicredit, che può acquisire la quota che deve dismettere.

Quando sono necessarie, le cose prima si fanno e poi si discutono. La notizia dell’apertura di una trattativa ufficiale tra Unicredit e Mef per Mps ha delle evidenti implicazioni politiche. Basti pensare che a Siena, proprio a Siena, tra due mesi si vota per le suppletive, con il segretario del Pd Enrico Letta candidato a prendere il posto lasciato libero da Pier Carlo Padoan, oggi presidente proprio di Unicredit.

Perché allora Draghi e Franco hanno deciso di uscire allo scoperto proprio ora? Perché la finanza ha i suoi tempi e se la quota del Tesoro va ceduta entro l’inizio del 2022 e i problemi da risolvere per chiudere la trattativa con Unicredit sono tutti sul tavolo, non c’è alternativa alla strada che è stata tracciata: lavorare, da subito, per risolverli.

Il premier Draghi, insieme al ministro Franco, ha preso una decisione. Unicredit farà i suoi interessi, il Tesoro farà i suoi calcoli, sperando che non siano il Monte dei Paschi, ovvero i lavoratori e i senesi, a dover pagare il conto. La politica alimenterà il dibattito su Rocca Salimbeni, come ha sempre fatto, sperando che abbia il pudore di farlo considerando le responsabilità accumulate negli anni. Intanto, però, si sta ragionando di un passo fatto, di una decisione presa, di una possibile soluzione. È l’arte di fare le cose.

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