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Coronavirus: pandemic bond mettono a rischio i risparmi?

Pandemic bond: cosa sono, come funzionano e chi ci guadagna. Un’analisi di Altroconsumo Finanza fa il punto su questo tema. L’intenzione era buona: quando scoppia un’emergenza sanitaria, il costo necessario per farvi fronte (ospedali, medicinali, personale medico, strumenti di protezione) può essere molto elevato e difficile da sopportare, specialmente per i Paesi in via di sviluppo; in casi del genere, è spesso necessario l’intervento della Banca mondiale per sostenere economicamente questi Paesi. Ma anche per la World Bank può diventare un costo notevole; per questo, dopo che tra il 2014 e il 2016 l’ebola aveva causato più di 11.000 vittime in Africa, la Banca mondiale ha ideato un nuovo meccanismo.

In pratica funziona così. Nel 2017 la Banca mondiale ha emesso due bond, per un totale di 320 mln di dollari, con scadenza 15 luglio 2020. Questi titoli pagano lauti cedoloni, ma in contropartita hanno delle condizioni: se prima della scadenza di metà 2020 scoppiano delle pandemie, i detentori dei bond (banche e gestori) si vedranno rimborsare solo una parte del capitale, o nemmeno quella.

I bond emessi dalla Banca Mondiale sono due. Il primo, da 225 mln di dollari (Isin XS1641101172), è legato solo alle pandemie di influenza o coronavirus, e per far scattare il taglio al rimborso serve, tra le altre cose, che ci siano almeno 2.500 vittime in un Paese (più almeno 20 in un altro). Il secondo bond (Isin XS1641101503), per 95 mln di euro, è legato a una gamma più ampia di casistiche (ebola, etc) e il taglio ai rimborsi (almeno in parte) scatta già quando le vittime sono 250. Il primo bond, meno ‘rischioso’ per chi ci investe, paga un tasso pari all’US Libor +6,5%. Il secondo paga interessi pari all’US Libor + 11,1%. Ai tassi attuali del Libor, significa rispettivamente il 7,5% e il 12,1%. La World Bank prenderà, infatti, i soldi avuti in prestito dai bondisti e li metterà direttamente nel fondo destinato a finanziare la lotta alle pandemie (Pef), evitando così di dover ricorrere a lunghi e complicati negoziati con i Paesi ‘ricchi’.

Il Pef (Pandemic emergency financing facility) è il fondo della Banca Mondiale che fornisce aiuti ai Paesi colpiti da pandemie. Il fondo ha due modi per raccogliere soldi: uno ‘assicurativo’, quello legato ai bond di cui ti stiamo parlando, e l’altro ‘per cassa’, alimentato dai contributi di Paesi ricchi o di organismi come l’Oms. In altre parole, doveva essere una specie di ‘assicurazione’ stipulata dalla World Bank. Ogni anno la Banca Mondiale paga il costo della polizza (gli interessi sui bond); in cambio, se scoppia un’emergenza, a pagarne il costo non sarà più lei, ma il ‘ricco’ settore finanziario che ha in mano i titoli.

Peccato che, come spesso accade, il diavolo stia nei dettagli. Nel caso di questi bond, i dettagli sono le clausole che fanno scattare il ‘diritto’ della Banca Mondiale a non restituire il capitale ai detentori delle obbligazioni. Il primo passo, certo, è l’attestazione della pandemia: per questo non è una mera questione di parole. Ma non basta: se, e quanto, il capitale sarà tagliato, dipende poi da una lunga serie di fattori tra cui, per esempio, il tipo di virus (per il coronavirus ci sono percentuali di rimborso diverse dai casi di filovirus come l’ebola, o dai casi di febbre di Lassa, e così via). E ancora: il tasso di crescita dei contagi, il numero di Paesi coinvolti, la distribuzione delle vittime nei diversi Paesi… insomma clausole a dir poco bizantine, tanto che ci vuole un apposito ente a certificarle (Air worldwide corporation). Morale, fino ad oggi banche e gestori hanno tranquillamente incassato i loro cedoloni senza rinunciare a nemmeno un cent del capitale.

Un esempio su tutti: nel 2018 una nuova emergenza ebola ha causato più di 2.000 vittime nella Repubblica Democratica del Congo, ma siccome non ci sono state almeno 20 vittime in un secondo Paese, i pandemic bond non hanno scucito un quattrino. Certo al Paese africano sono comunque arrivati degli aiuti dal Pef, ma fa impressione pensare che quanto ha ricevuto è meno degli interessi incassati dalle banche sui bond.

Cosa c’è di diverso nell’attuale emergenza coronavirus, rispetto ai casi degli ultimi anni? C’è che, purtroppo, il numero di vittime e di Paesi coinvolti ha già raggiunto dimensioni tali che, una volta superato lo scoglio della definizione di pandemia che fa da discrimine, poi le altre condizioni potrebbero (per la prima volta) essere tutte raggiunte. Insomma, stavolta potrebbe davvero scattare il taglio del rimborso dei bond, e questo non fa piacere alle banche che li hanno in mano, ma neanche alla Banca Mondiale. Le banche, infatti, rischiano di perdere decine, o centinaia, di milioni di dollari. Mentre la Banca Mondiale vede fallire il primo tentativo di ‘assicurarsi’ contro le pandemie: se il primo bond di questo tipo finisce con un flop, difficilmente troverà, in futuro, banche disposte ad acquistarne altri.

Dunque, anche se suona cinico dirlo, questo potrebbe essere uno dei motivi per cui, nonostante tutto, il ‘caso’ coronavirus non è ancora diventato, ufficialmente, una pandemia. Ma la strada da qui a luglio, quando i due bond arriverebbero placidamente a scadenza, è lunga, ed è difficile pensare che si possa ignorare la gravità dei fatti fino ad allora.

Nel 2018, in piena emergenza ebola, al Congo non è arrivato neanche un centesimo dalla parte ‘assicurativa’ del Pef (quella legata ai bond). Sono arrivati, sì, 50 mln di dollari, ma dalla parte ‘per cassa’. E intanto ad oggi, secondo i calcoli di Altroconsumo, le banche hanno incassato oltre 60 mln di dollari di interessi sui bond.

Il 23 marzo scattano gli 84 giorni (cioè 12 settimane) dalla scoperta dei primi casi, che è un’altra delle tante, incomprensibili condizioni per il taglio del rimborso del bond (perché aspettare così tanto, se lo scopo è prevenire la diffusione delle pandemie e non combatterle quando ormai sono così diffuse da rendere difficile correre ai ripari?).

Da quella data in poi, in qualunque momento Air worldwide corporation potrebbe sancire ufficialmente il raggiungimento delle condizioni (finché non lo fa, i bond restano così come sono). Da lì in poi, quindi, potrebbe scattare il taglio al rimborso dei due bond: un’altra mazzata, certo non mortale ma comunque dolorosa, per le banche che li detengono, per il sistema finanziario in generale e per le Borse. Insomma altra bufera sui mercati.

Per difendere il proprio patrimonio esistono diversi strumenti: vendere, assicurarsi con lo short, mantenere i nervi saldi e aspettare che passi la bufera. Un’altra eventualità è che le banche che hanno in mano questi bond, sentendo puzza di bruciato, non li inseriscano nei fondi comuni o nelle gestioni patrimoniali dei comuni risparmiatori. Lo hanno già fatto in passato con i bond argentini, Parmalat, Cirio.

Le condizioni che fanno scattare il taglio al rimborso del bond sono talmente complicate da calcolare che serve un’apposita società per certificarle: è la bostoniana Air corldwide corporation, specializzata in modelli quantitativi ed econometrici. Società, tra l’altro, privata, e anche questo non ha mancato di suscitare polemiche.

Ufficialmente i due pandemic bond sono quotati sulla Borsa del Lussemburgo, ma di fatto non sono negoziati, se non tra operatori specializzati. Chi li ha in mano? Non ci sono notizie certe, ma secondo alcune voci tra i detentori ci sono Baillie Gifford, Stone Ridge Asset Management, Amundi, Invesco.

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