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Innovazione, ecco perchè serve un ministero

Di Salvo Ingargiola – Proprio quando Movimento Cinque stelle e Lega stanno stringendo sulla formazione del nuovo Governo, mentre tutti si affannano sui nomi di premier e ministri, per lei – Anna Amati, vicepresidente di Metagroup, società di investimenti e di consulenza internazionale, che fornisce servizi a clienti come Commissione europea su start up e imprese – la parola più importante resta ‘innovazione’. “Mi piacerebbe pensare nel prossimo Governo a un ministero per l’Innovazione capace di attivare risorse importanti (sul Venture capital – evidenzia – siamo il fanalino di coda in Europa) e di coinvolgere risorse pubbliche regionali ed europee insieme a quelle di private corporate e di imprenditori”. “Serve un disegno comune, una strategia”, scandisce con il tono della voce pacata. Il mondo delle start up si nutre della cultura dell’innovazione. E’ come una catena. La cultura dell’innovazione si alimenta di uno strumento che si chiama fiducia.

Perché se si dà fiducia a idee vincenti, il Paese cresce. Come accade in Calabria, nel cuore del Sud stretto tra disoccupazione e povertà, dove un giovane – Antonio Pagliaro – si è inventato ‘Revolution’, un mini frantoio per produrre l’olio d’oliva in casa. Esattamente come una macchinetta per il caffè, ma per produrre l’olio in versione Express. “Lui, Antonio – lo descrive Anna Amati – è un vulcano di capacità creative. Quando la stoffa c’è, anche in una regione difficile come la Calabria si può fare bene. Se tutti gli imprenditori fossero così, l’Italia non avrebbe problemi”. Già, perché – in fondo – se è vero ed importante mettere a disposizione importanti strumenti per far correre le start up, è altrettanto vero che la rivoluzione di Industria 4.0 va sfruttata in fondo. “Parafrasando Massimo D’Azeglio, ‘fatta Impresa 4.0, bisogna fare gli imprenditori”, spiega. Il pensiero va – ma non solo – ai piccoli imprenditori che si sono sempre basati solo sulla loro bravura e sulla loro capacità ma delle volte – puntualizza – ignoranza e mediocrità rischiano di condannare le imprese a un futuro difficile”. Ed ecco allora che spunta un’altra parola chiave della conversazione con la Amati: ‘il viaggio’. “Un suggerimento è girare il mondo, incontrare persone, catturare il valore degli altri, ascoltare testimonianze, prendersi del tempo per condividere, approfondire, pensare”. L’innovazione cresce in un terreno favorevole, se ci sono competenze e se il mondo dell’Università è integrato con quello delle imprese, spiega.

“Penso a Umbra group– una società nel settore delle tecnologie aerospaziali, capace di acquisire lo spin off dell’Università di Perugia che è un centro di ricerca nel settore dei materiali per lo spazio. E’ l’esempio classico di un’azienda che ha costruito una relazione con l’Università, integrandola nel suo tessuto produttivo”, mette in evidenza Amati. La sfida dei Competence center di Industria 4.0 sta proprio qui: “Ritardi a parte, crediamo che il bilancio sia positivo. Le misure pubbliche di incentivi e finanziamenti non possono sostituirsi alla capacità e alla vivacità degli imprenditori di creare innovazione. Troppo spesso l’evidenza dice il contrario. Si attendono gli incentivi, poi si inventano i progetti. Il mercato su questo non fa sconti a nessuno”. La curiosità è ciò che spinge a muoversi. Come ha fatto Paolo De Nadai che da blogger (“Paolo aveva vissuto un’esperienza all’Università: durante un esame, il professore si addormentò. Condivise una foto sul suo blog e da lì creo una community”) si è trasformato in startupper. Oggi gestisce Scuolazoo e organizza, tra l’altro, con il suo gruppo viaggi low cost per giovani studenti. Conta molto creare un ambiente favorevole – conclude -. Se in Italia riuscissimo a fare per i nostri imprenditori lo stesso tifo che, ogni domenica, si fa per le squadre di calcio, saremmo un Paese in grado di eccellere a livello mondiale”. Impresa 4.0, insomma, non è ancora una sfida vinta. La partita, dunque, è tutta da giocare.

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