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Impreme, il rilancio ‘in rosa’ dei Mezzaroma

Ottantaduemila. Tante sono state le imprese ufficialmente fallite in Italia tra il 2008 ed il 2015. Gli anni più duri della crisi economica hanno segnato in maniera indelebile il tessuto imprenditoriale del Paese, mietendo più vittime che feriti, e costringendo quest’ultimi a ripensare i loro modelli di business ed i loro schemi valoriali. E’ il caso della Impreme, realtà della famiglia Mezzaroma specializzata nel campo immobiliare, che risulta emblematico. Sprofondato in forti difficoltà nel 2010, il Gruppo è riuscito negli anni a rialzarsi attraverso un piano di risanamento di qualità, una partnership con un fondo di investimento americano ed una solida identità familiare. A prendere le redini del rilancio aziendale sono state infatti le tre sorelle Mezzaroma, figlie del fondatore Pietro. Una rinascita dalle forti tinte rosa, con Alessandra a capo dei progetti di sviluppo, Valentina alla direzione marketing, e Barbara, che abbiamo intervistato, nel ruolo di presidente.

Dottoressa Mezzaroma, il Gruppo del quale è presidente, la Impreme S.p.A., ha superato un’importante crisi aziendale e riavviato le proprie iniziative di sviluppo. Facendo un passo indietro, ci può spiegare le ragioni che hanno causato la crisi della sua impresa?

La crisi del gruppo è stata caratterizzata da fattori endogeni ed esogeni. Nella prima fase, tra il 2010 ed il 2013, l’azienda si è concentrata in investimenti no-core che non hanno assolutamente riportato quelli che potevano essere i ritorni attesi. Questo ci ha convinti a ritornare al principio secondo cui “ognuno deve fare il mestiere che sa fare”, e quindi nel 2013 ci siamo concentrati nuovamente su quella che era l’attività tipica dell’impresa, ovvero la realizzazione di edifici residenziali di alta qualità e innovazione (85% del fatturato) ed immobili con destinazione ad uso commerciale/direzionale (10-15%). Poi, oltre a quelle che sono le attività di immediata redditualità, siamo al contempo un Gruppo che realizza infrastrutture e servizi pubblici ad integrazione degli insediamenti che andiamo a creare. Tuttavia, nello stesso anno si è innescata una crisi del settore, non solo a livello commerciale, che ha influito sia sulla capacità di incamerare profitti sia sulla produzione di immobili, compromettendo inevitabilmente i numeri dell’azienda. In ultimo, anche con un minimo di polemica, ritengo che nel massimo periodo del nostro comparto le banche italiane si siano comportate in modo non importante, ed in modo disallineato con quello che dovrebbe essere il loro core-business, cioè supportare le aziende e creare ricchezza.

Crede che la crisi del settore immobiliare, e in particolare di quello italiano, possa dirsi del tutto superata?

La mia convinzione è che, anche in presenza di una ripresa, la crisi non sia del tutto superata. Su questo occorre fare però una riflessione successiva. Quella degli ultimi anni è stata una crisi che ha provocato più morti che feriti, ma ha al contempo fornito indicazioni nette su come allontanarla ed uscirne. Oggi non si tratta più di costruire, ma di riqualificare il contesto urbano, specialmente con progetti rivolti a quei perimetri che per troppo tempo le città hanno disatteso sotto il profilo antropizzato. Sono certa che di crisi si continuerà a parlare, non perché il mercato non si sia ripreso, ma perché saranno sempre più abbandonati pezzi di città epigoni di una cultura della costruzione di breve veduta. Per superare realmente le difficoltà bisognerà puntare sulla qualità, sulla sostenibilità e sull’innovazione tecnologica.

Che ruolo (o quali responsabilità) ha avuto il settore bancario nelle vicissitudini affrontate?

Il settore bancario ha avuto sicuramente un ruolo fondamentale che parte da lontano. Per troppo tempo gli istituti di credito hanno sostenuto e premiato iniziative che prive di senso e valore. Io spesso rimango allibita da quella che è stata l’apertura al credito nei confronti di progetti senza passato, presente o futuro. La crisi del settore in cui operiamo non è derivata da un coevo comportamento viziato delle banche, ma una parte di essa è nata da un passato di rapporti non equilibrati tra il sistema bancario ed imprenditoriale, non solo nel settore immobiliare.

Il piano di ristrutturazione del gruppo è stato realizzato grazie ad una join venture con Varde Partners. Quali sono state le difficoltà, se ci sono state, nel convincere un fondo straniero così importante a investire in Italia?

Convincere un fondo straniero ad investire nella nostra azienda è stata una sfida in cui abbiamo messo in campo tutte le nostre capacità, e che ci ha fatto rendere conto sia di quale fosse il percorso che dovevamo intraprendere, sia di quali fossero i valori del passato su cui costruire una partnership con un soggetto così importante. I grandi temi critici che “spaventano” e quindi scoraggiano i fondi ad investire nel nostro Paese sono noti: un’eccessiva burocrazia; una giustizia che non ha né tempi, né modi, né forme coerenti con quelli che sono i comportamenti del quotidiano; una politica che cerca di favorire i bacini di ricezione dei consensi; una scarsissima formazione professionale nel nostro settore. Ritengo invece che le PMI italiane, soprattutto quelle di dettaglio, siano un’eccellenza del Paese. Non va trascurato che il settore in cui operiamo è l’unico ad essere impossibile da delocalizzare, motivo per cui tanta è la scarsa professionalità, tanti sono e saranno i danni per l’Italia.

Ha mai pensato, durante un percorso complesso come il suo, di gettare la spugna? Ha mai pensato di non farcela?

Mai. Ho sempre pensato di poter raggiungere i risultati attesi, e non ho mai iniziato un percorso che non abbia tutelato gli interessi dei miei stakeholders. In questo modo è stato possibile raggiungere quella che oggi definisco una fase di rinascita. Inoltre, fin da piccola ho sempre pensato che le buone azioni riescono a trovare le gambe per andare avanti. Con questo non dico che sia stato un momento facile, ma sicuramente ho combattuto fino all’ultimo centimetro con la convinzione di riuscire a farcela.

La sua impresa ha una esperienza consolidata nel campo dello sviluppo immobiliare. Quanto è stata importante una base familiare all’interno dell’azienda?

Qui ci sono due aspetti diversi. C’è una prima generazione, quella di mio padre che ha fondato l’azienda, a cui la nazione deve essere grata, perché è quella che dopo la seconda guerra mondiale ha ricostruito ed ha rilanciato il Paese dandogli una chance di recitare un ruolo a livello internazionale. Relativamente alla situazione attuale, esiste sempre una coincidenza tra la governance e la proprietà dell’impresa, fattore che io ritengo essere un grandissimo valore aggiunto. Quando in un’azienda si va a creare una dicotomia netta tra la proprietà e coloro che sono deputati a definire le strategie, viene di conseguenza perso di vista quello che può essere un sistema valoriale dato da una famiglia, elemento a mio avviso fondamentale.

Ci può dare i numeri che rappresentano meglio la realtà di Impreme? Quali sono le previsioni per i prossimi 3/5 anni?

Ci aspettiamo una crescita minima del 25% annuo, anche perché facendo parte di una joint venture con un fondo americano opportunistico non si potrebbe immaginare meno. Da qui a 6-8 mesi credo che l’azienda ritornerà quindi ad registrare cifre ad otto zeri.

La storia della sua impresa si è caratterizzata per l’uso di soluzioni innovative in tema di sostenibilità e rispetto dell’ambiente. Come immagina Impreme fra 10 anni?

Impreme tra 10 anni darà per scontata la casa e punterà tutto sulla qualità del tempo libero delle persone. Non ci saranno più schemi di territorialità ed appartenenza a realtà circoscritte, ma si andrà a cercare il benessere nel quotidiano. Lavorare su ogni centimetro temporale che si potrà garantire all’utente per migliorare il suo percorso giornaliero sarà la vera avventura di Impreme.

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