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Mezzo secolo di eleganza italiana, intervista a Chiara Boni

Sembra di vederla, Chiara Boni bambina, mentre accompagna la mamma negli atelier dell’alta moda parigina a provare abiti da sogno, sentendosi un po’ una principessa delle fiabe. Una sognatrice – ma lei si confessa anche lucida stratega – che negli ultimi 50 anni ha lasciato il segno in un settore vanto della creatività italiana. Un impegno che è valso alla stilista la nomina a Cavaliere del Lavoro da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nata a Firenze, nella sua città Boni ha esordito nel 1971 con la sua prima, immaginifica boutique e la linea ‘You Tarzan me Jane’. Nel 1985, con il sostegno del Gruppo Finanziario Tessile, fonda l’azienda che porta il suo nome. Nei giorni scorsi poi, la notizia dell’operazione con cui la famiglia di imprenditori tessili biellesi Germanetti ha rilevato la totalità delle quote di Chiara Boni and Sons, l’azienda alla quale fa capo il marchio Chiara Boni La Petite Robe (che dal 2009 controllava per il 50%).

Una decisione “sofferta”, ci racconta la stilista, che al momento sta valutando “diverse proposte interessanti. Perché – ci confida – proprio non riesco a restare con le mani in mano: mi annoio”. E se sul futuro prossimo Chiara Boni non si sbilancia, in realtà qualche indizio lo regala parlandoci di sé: “Mi piace disegnare, ma mi piace anche la strategia: avendo iniziato da sola, sono partita con un unico tessuto perché pensavo che non fare magazzino, quando non hai tante forze, sarebbe stata una buona idea. E infatti ha funzionato. Insomma, oltre a essere stilista mi accorgo subito se un percorso imprenditoriale è corretto. Ecco, la strategia mi interessa molto, come anche la memoria: è importante per costruire un racconto”. Un racconto fatto di abiti, ricordi, suggestioni.

Allora andiamo indietro nel tempo: lei ha avuto una vita incredibile, ma noi iniziamo dal 1971, l’anno in cui ha aperto la sua prima boutique. I suoi abiti sensuali e ironici puntavano a rendere la figura più femminile. Oggi si sente ancora Jane? E come è nata la passione per la moda?

Beh sì, mi sento ancora Jane (ride, ndr). Mia mamma era una signora elegantissima, vestiva in sartoria e io la accompagnavo spesso a Parigi: ovviamente per una bambina quello era un mondo fatato. Vedere mia mamma scegliere i vestiti, i grandi couturier francesi puntare gli spilli, tutti quegli abiti da sogno in un’epoca in cui noi eravamo vestite da bambina fino a diciott’anni, con i calzettoni e le gonne scozzesi… Poi nel ’67 sono andata a Londra: il mondo era del tutto diverso, era scoppiata la rivoluzione femminile, c’era la minigonna e io mi sono innamorata di questo mondo nuovo e stravagante, senza barriere e in fermento. Dove incontravi musicisti, stilisti, artisti, c’era un grande scambio di energie e tutto era nuovo.

Che emozione le ha dato la nomina a Cavaliere del Lavoro? Ricordo che lei ha detto in un’intervista che, fra le sue amiche, è l’unica che ha lavorato…

Sì, questa onorificenza è stata una cosa molto bella per me, una grande emozione. La mia nipotina di 8 anni mi ha chiesto: “Come hai fatto nonna? Non sai andare a cavallo, non porti la macchina, ma che cavaliere sei?”. Beh, devo dire che lavoro da 50 anni e non solo fra le mie amiche, ma anche in famiglia sono l’unica che abbia lavorato. Mio padre era un uomo molto elegante, il classico signorino, però dopo la morte di mio nonno non ha mai lavorato: si manteneva giocando a bridge (sorride, ndr). Mia madre non ha mai lavorato, mio zio neanche. Dunque sono stata la prima.

Con notevole successo, bisogna dire. Che cos’è l’eleganza oggi per Chiara Boni?

L’eleganza si riconosce a vista: lo stesso vestito, indosso a due persone diverse, una volta è elegante e un’altra non lo è. È la persona a fare l’eleganza, è una questione di chi sei e cosa vuoi comunicare. Insomma, può essere una dote coltivata, ma anche molto innata. Un certo modo di muoversi, la disinvoltura con cui si porta un abito.

Lei è celebre per suoi abiti in jersey stretch, ma cosa deve offrire oggi la moda alle donne moderne, che passano dal lavoro a un aperitivo, magari senza rientrare a casa?

Quando mi sono inventata ‘la petite robe’ all’inizio pensavo proprio a un vestito duttile, da mettere la mattina, magari con pochi accessori e poter portare anche la sera, con un paio di tacchi e pezzi più importanti. Deve essere la donna a far vivere il vestito, senza mai esserne sovrastata. Comunque credo che l’eleganza e il Made in Italy siano qualcosa di riconoscibile: ogni volta che andavo negli Stati Uniti, mi fermavano per chiedermi se fossi italiana.

L’Italia della moda è ancora in grado di far sognare?

L’Italia è in grado di far sognare, peccato che abbiamo perso delle grandi occasioni. Essendo stata in un periodo della mia vita dentro il Gruppo Finanziario Tessile, il primo grande gruppo del mondo ad avere celebri marchi del prêt-à-porter (allora aveva Valentino, Ungaro, Armani, io ero la ‘piccola’ del gruppo), posso dire che quello era un po’ l’embrione di ciò che è LVMH oggi. Ecco perché dico che l’Italia ha perso un’occasione. A mio parere Marco Rivetti è stato per quei tempi un visionario. Ma devo aggiungere che, anche se molti marchi italiani sono diventati francesi, la moda si fa sempre in Italia. L’occhio che hanno i nostri artigiani, abituati a vedere la bellezza, conta moltissimo e fa la differenza.

Quanto è difficile per una donna fare impresa nel nostro Paese?

Penso che sia difficile. Ma c’è anche un altro aspetto, e in questo caso parlo per me: sono molto affezionata ad alcune parti del mio lavoro, mentre ad altre non riesco ad applicarmi completamente. Ecco perché penso che ci voglia sempre il partner giusto. Del resto, tutti quelli che hanno avuto un grande successo nella moda hanno sempre avuto il partner giusto. Valentino con Giancarlo Giammetti, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli.

 

 

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