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Lavoro povero, il tallone d’Achille di un Paese con una produttività al palo

Ha ragione Houellebecq: nelle elezioni che si sono svolte in Francia continua a manifestarsi la contrapposizione tra popolo ed élites, la stessa che ha segnato il voto britannico e le principali tornate elettorali degli ultimi anni in Occidente. Anche se n’è venuto fuori un hung Parliament, con tre poli incapaci di governare, il partito di Marine Le Pen si conferma il primo partito di Francia, al quale si è contrapposto un “cordone sanitario”, effetto del barrage imposto da centro e Fronte di sinistra. Nel Regno Unito, la medesima contrapposizione ha provocato il licenziamento anticipato di un premier lontano dal popolo e la promozione di un leader di sinistra perfetta incarnazione dell’uomo comune.

Fino ad oggi, a trarre un dividendo politico nello scontro tra ceti popolari e ceti abbienti, tra proletariato ed establishment, sono stati i movimenti populisti, e tuttavia qualcosa potrebbe cambiare. Come abbiamo già raccontato su Fortune, l’Italia affronta una gigantesca questione salariale: oggi il “lavoro povero”, quello di chi non riesce a sbarcare il lunario pur essendo regolarmente occupato, è una emergenza nazionale. Del resto, che futuro ha un Paese dove anche chi lavora non riesce ad assicurare l’autosussistenza economica per sé e per la propria famiglia? I tassi record di occupazione registrati sotto il governo Meloni non risolvono il dramma di salari falcidiati dall’inflazione, con una perdita verticale del potere d’acquisto. Ti dai un gran daffare da mane a sera ma poi finisci al banco della Caritas per la spesa alimentare: accade in Italia.

Nel Regno unito, come racconta oggi Ryan Hogg su Fortune, i salari sono aumentati del 7 percento nel primo semestre dell’anno, circa il doppio di quelli dell’Eurozona (3,7 percento) e più del doppio rispetto alla crescita degli Usa (3,1 percento). Eppure, secondo le previsioni del FMI, quest’anno l’economia britannica crescerà più lentamente di Europa e Usa. Una spiegazione attendibile è legata all’aumento governativo del salario minimo legale: un fattore esogeno, dunque, che fa lievitare i salari in maniera “forzosa”, per una politica di Downing Street.

L’Italia è messa peggio di Parigi e Londra: nel rapporto dell’Ocse presentato ieri, siamo agli ultimi posti per i salari reali. La disoccupazione è ai minimi ma in termini di potere d’acquisto gli italiani si aggiudicano un primato negativo con un -6,9 percento, una cifra emblematica dell’impatto che l’inflazione ha avuto sulle retribuzioni a partire dal 2019. Siamo sul podio dell’area euro facendo peggio di Germania (-2 percento) e Francia (+0,1 percento). La soluzione non è certo la dinamica coattiva dei salari che rischierebbe di far crescere il lavoro nero e di ridurre l’occupazione legale: non si possono costringere, per legge, le imprese a pagare di più. I salari bassi sono la spia della bassa produttività della nostra economia nazionale. Su questo il governo dovrebbe disegnare un piano di rilancio industriale partendo dai settori ad elevato tasso di innovazione. Le promesse sul rinnovo del taglio del cuneo fiscale contano per chi deve arrivare a fine mese ma restano un palliativo di breve respiro. Com’è noto, i mesi poi si accumulano e diventano anni. Serve perciò una sterzata decisa, un vero “turnaround”, perché lo scontento dovuto ai bassi salari non diventi un boomerang per chi è chiamato a governare.

Leadership Forum
Paideia

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